Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

La Corte
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La Retta Via nei Reami Dimenticati

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2016 06:55
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20/09/2016 21:01

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L'ambientazione non cambia, solo il lato da cui si combatte. Dopo la morte del malvagissimo party, un grande buco nelle trame del fato è stato lasciato. Riusciranno i nostri eroi del Bene a condurre alla salvezza queste terre?
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Età: 41
Sesso: Maschile
20/09/2016 21:03

STE:

Rowan Mainstorm

Nato nella grande città di Tsurlagol nel Vast, da una famiglia di modesta classe sociale, per forza di cose Rowan si è sempre trovato con un’arma in pugno. Sin da piccolo.
Tsurlagol, infatti, è la città più meridionale del Vast, da qui il nome con cui è conosciuta: Porta dell’Inaccessibile Oriente. Tsurlagol detiene, probabilmente, il triste primato di città più saccheggiata della regione. Le rovine di una dozzina di città precedenti fungono da fondamenta per la grande città attuale. Per via di questo retaggio, il sistema di guardia cittadina è molto rigido e specializzato.
Lo stesso padre di Rowan, militò nella guardia cittadina, andando a ricoprire la carica di supervisore dell’Ala Est della Prima Cinta.
Rowan nacque qui, in una città caotica ma militarizzata, dove la gente viveva sul ‘chi và là’ e la diffidenza era la più fedele compagna di vita.
Con la madre intenta a seguire due lavori e sei marmocchi, Rowan creebbe in maniera spartana, nelle strade e con sempre in pugno una spada di legno e il moccio al naso.
I suoi occhi castano chiaro si fermavano sempre, quasi incantati, a guardare i drappelli di milizia cittadina che pattugliavano i vicoli della prima cinta muraria.
Il padre si dispensò dall’allevare i figli in cultura ed arte, piuttosto istruì nella disciplina militare del combattimento all’arma bianca Rowan ed i suoi due fratelli minori, Fergon e Torwin, robusti e violenti; mentre Anthea, sorella primogenita, e i suoi due fratelli maggiori, Adrian e Metin, all’arte del tiro con l’arco, in quanto più slanciati e dinocciolati.
Fu così che all’età di 15 anni, Rowan raggiunse i suoi fratelli nella milizia cittadina di Tsurlagol. Seguì un rigido addestramento militare, ma la disciplina gli stava stretta dato il carattere forgiato tra le polverose e caotiche vie della prima cinta. Fu per questo che non fece alcuna carriera.
Passò qualche anno come sguattero, successivamente venne assegnato alle ronde esterne, il ruolo più infame. Nelle numerose schermaglie con le bande di orchetti delle pianure, non si distinse mai, anche se portò sempre a casa la pelle. Unico suo credito era quello di essere sempre in prima fila durante uno scontro.
Rowan amava combattere, ed i suoi rudimenti impartiti dal padre mescolati alla sua furia lo rendevano un avversario mediocre.
Fu diversi anni dopo che arrivò il giorno della svolta.
Era il vespro di un pomeriggio mite. La solita ronda, il solito percorso, i soliti compagni, la solita monotonia.
Fu durante il rientro, che qualcosa andò storto. Un carro di bestiame si era impantanato a ridosso della boscaglia. Ligi al dovere, Rowan ed i suoi commilitoni, si diressero verso il carro. Il ronzino era evidentemente inquieto e del conducente nemmeno l’ombra. Inutile dire che la cosa insospettì il drappello. Mentre due sorvegliavano il carro abbandonato, il resto s’inoltrò nella macchia litorale, alla ricerca dello sventurato. Tutti si aspettavano la solita incursione di orchetti ma non fu così.
Dopo una decina di minuti di cammino, una rozza freccia con impennaggio di piume di corvo, s’impiantò nella grogiera di cuoio del compagno al fianco di Rowan. Gli occhi dell’uomo, sotto l’elmo si rivoltarono lasciando solo il bianco, esanime cadde sulle ginocchia, sprofondando nel fango. Il silenzio non fu rotto da urla ma da una scarica di frecce della stessa natura, provenienti da tutte le parti. Nessuno restò illeso, i più fortunati, se la cavarono con un paio di dardi nelle braccia o nelle gambe. Rowan si guardò attorno, più frastornato che impaurito, vide altri due compagni con il viso rivolto nella fanghiglia, gli altri in piedi ma anche loro feriti. Il suo l’avanbraccio sinistro, nonostante l’intreccio di maglie, fu trapassato da parte a parte da una freccia. Stringendo i denti spezzò il fusto ed estrasse il residuo in legno e penne, ciononostante, il braccio era inutilizzabile. Fecero solo in tempo a raggrupparsi, spalla contro spalla, prima di subire l’assalto di quelli che non erano semplici orchetti bensì orchi neri delle Foreste Grige poco distanti. Il combattimento fu impari sin dall’inizio. Un uomo crollò, divelto dalla spalla al basso ventre da una poderosa ascia bipenne. Gli altri resistettero nella speranza che i due uomini lasciati di guardia al carretto accorressero in loro aiuto, ma ciò non avvenne. L’imbrunire era prossimo, Rowan e i pochi altri resistettero come poterono.
Senza nemmeno poter sollevare lo scudo sul quale era inciso il sacro simbolo di Tempus, Rowan ed i suoi pochi compagni rimasti indietreggiarono, spinti nella fitta macchia. Caddero inesorabilmente uno dopo l’altro. Abbandonarono le armi e batterono in ritirata, disperdendosi a coppie.
Rovi e rampicanti rallentarono la loro fuga, finché un’ennesima scarica di dardi li mise con le spalle al muro.
Nathan, il compagno di Rowan rimasto con lui, gemeva per il dardo che gli trapassava il ginocchio dall’incavo e gli spuntava fuori con la rotula penzolante sulla punta.
Rowan vomitò di lato. Nel sottofondo della macchia si sentivano le urla dei suoi compagni, macellati dai loro inseguitori. Una bieca risata irruppe dai cespugli, dai quali uscì in enorme orco grigio scuro e dall’occhio guercio. Sulla spalla portava fieramente una grande balestra scarica. Disarmato, Rowan tentò una carica a testa bassa, se doveva morire, per lo meno l’avrebbe fatto combattendo. Il suo attacco fu inefficace, quasi ridicolo. Venne sbalzato indietro dall’imponente massa dell’orco, ben più alto di lui. Nathan, in evidente stato di shock da dolore, mugugnava strani versi mentre lacrime e muco si mescolavano sul suo viso. La vista di quel guerriero, frantumato nel corpo e nello spirito, ispirò Rowan a pregare perché Tempus gli desse la forza di morire combattendo. L’orco, di certo non impietosito, con il calcio della balestra sfondò la bocca di Nathan, il quale, dopo aver grondato sangue e denti spezzati per qualche istante, spirò. Cieco di rabbia, Rowan tentò un ennesimo attacco, con l’unico braccio sano, strappò dal ginocchio del compagno d’arme il dardo orchesco che ritornò al suo possessore diritto nell’occhio buono.
Le zanne dell’umanoide pellenera schioccarono in un grido iracondo mentre la sua mano si serrò alla gola di Rowan. La presa era d’acciaio. Il giovane uomo si dimenò, imprecò a denti stretti ma nulla poté contro l’eccezionale forza della creatura. La vista lentamente iniziò ad annebbiarsi.
-Tempus. Dammi la Forza- pregò.
Le unghie sporche del bestio penetrarono la grogiera in cuoio e la sua carne di conseguenza.
- Tempus. Dammi la Forza- supplicò.
Gli occhi di Rowan si rivoltarono, pronti a chiudersi per sempre.
-Dammi …-
La Forza arrivò. Come un vento caldo penetrò nelle ossa del giovane. Le ferite smisero di pulsare di dolore. I muscoli del collo, delle braccia e delle gambe si gonfiarono. I denti si serrarono e la vista ritornò in quella boscaglia di notte. Non c’erano luci, ma poteva sentire l’olezzo dell’orco a pochi centimetri da lui, il suo ringhio grottesco e ruvido. Era cieco ma in forze, il dardo non aveva che penetrato la superficie dell’orbita. La mano buona di Rowan tastò, annaspante attorno a sé, finché non afferrò una fredda lama grezza, alla cintura dell’incursore. Senza pensare, con il puro istinto e la forza conferitagli dal dio delle battaglie, strappò dalla guaina l’arma, la impugnò saldamente e con un ampio gesto, infuso dalla strepitosa forza del dio, spaccò il cranio glabro e cieco dell’orco, il quale non mollò la presa finché con tre accettate, il possente braccio non venne separato all’altezza del gomito dal resto del corpo.
L’enorme creatura crollò in una densa pozza di sangue nero e maleodorante. Pezzi di cervello ed osso intaccarono il volto di Rowan, il quale, con ben salda in mano l’ascia, si rannicchiò sfinito nell’incavo di un grosso albero. I suoni e gli odori si mescolarono tra di loro. La forza divina sfumò, lasciandolo inerme e febbricitante.
Solo due giorni dopo, i cani degli scout della guardia cittadina, fiutarono il suo corpo, coperto di sangue orchesco e umano rappreso. Lo estrassero dall’incavo, avvolto nel suo mantello rosso con il sacro simbolo di Tempus e lo portarono immediatamente al tempio del dio.
Rowan non fu mai un grande guerriero. Era solo un po’ più robusto della media. Ma scoprì di avere in sé un grande potere sopito e riscoperto dalla fede nel Signore della Battaglia.
Fu così che Rowan Mainstorm abbracciò appieno la fede del Martello dei Nemici, Tempus.
Da anni egli porta il simbolo inciso sulla sua ascia da battaglia del dio in battaglie, campagne e spedizioni militari, proteggendo gli alleati, sconfiggendo i nemici e portando equilibrio e giustizia contro i barbari infedeli del Vast.
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21/09/2016 06:53

STE:

BACKGROUND BARBARO
Dal diario di Findaroth:

“… Il mio nome è Findaroth, o questo è il nome che mi diede l’uomo che dice di essere mio padre. Da bambino credevo davvero che lo fosse, poi crescendo fu evidente che le mie fattezze non erano proprie della razza umana. Fui trovato, mi disse Arrod, l’uomo che mi fece da padre, in un carro che trasportava minerali da una vicina cava, dalla quale mio padre si riforniva per estrarre il ferro che usava nella sua bottega da fabbro. La mia vera età non la so, ma so che gli elfi e i discendenti di questa razza sono di gran lunga più longevi degli umani; mio padre mi disse che quando mi prese con lui, potevo avere circa 8-9 mesi. I primi tempi non furono facili per lui: sono sempre stato irrequieto, dal temperamento focoso, ulteriore indice che non appartenevo appieno alla razza elfica. Comunque, mio padre aveva una bottega da fabbro nella città di Immersea, nel Cormyr, famosa per i numerosi traffici commerciali. Non sono mai stato un ragazzo dedito all’istruzione, infatti cominciai molto presto ad aiutare mio padre nella sua fucina. Per essere un mezzelfo, o un mischiarazze, come mi chiamavano in città, ero piuttosto robusto, con una muscolatura ben sviluppata, caratteristica che mi mise spesso nei guai. Ciò che mi accadde in seguito, caratterizzò ciò che sono e che sono diventato. Un giorno, dopo essermi svegliato e aver mandato giù un boccone, mi avviai alla fucina. Già al lavoro si trovava mio padre, che stava finendo delle barre di ferro da portare ad un cantiere in città. Dopo che le ebbe ultimate, le mise su un carretto e mi disse di consegnarle al borgomastro, che le avrebbe spedite al cantiere. Così mi misi in viaggio e verso metà mattina giunsi ad Immersea. Il traffico era notevole sulla via maestra, e arrancavo lentamente. Soprapensiero, non vidi uno spocchioso nobilotto attorniato dalle sue guardie che camminava nel senso opposto al mio. Lo vidi all’ultimo istante: non riuscii a far scartare il cavallo in tempo, che urtò il nobilotto e lo spedì dritto nel lordume della strada. Scesi dal carro per porgere le mie scuse, ma il nobile non volle sentire ragioni: due guardie mi afferrarono per costringermi ad inginocchiarmi, ma come mio padre mi ha sempre detto “…non importa se sei un umano o un mezzelfo, la tua dignità si misura da ciò che fai non da ciò che sei…”, ho voluto imporre le mie ragioni nell’unico modo che mi rimaneva. Le due guardie che mi tenevano vennero stese, una con il naso rotto e una con una gamba rotta. Le altre due si avventarono sue di me, ma ero come in preda ad un furore primordiale, che mi incendiava le membra e non mi faceva sentire il dolore, ed ebbi la meglio su di loro. Nella furia distruttiva, colpì anche il nobilotto: con una piedata credo che gli ruppi lo sterno, ma, purtroppo il maledetto sopravvisse. Dopo questi fatti i miei ricordi si fecero fumosi, credo che svenni per la fatica. Mi risvegliai un paio di giorni dopo nelle prigioni, quando mio padre mi venne a trovare: gli occhi lucidi e le parole sussurrate: venni a sapere che avevo perso il mio status di cittadino libero ed ero diventato uno schiavo. Ma nonostante questo, mio padre mi disse che qualunque cosa mi succedesse io rimanevo sempre suo figlio e che era orgoglioso di avermi cresciuto ed avermi fatto da padre; fu l’ultima volta che lo vidi. Dopo due settimane trascorse in cella, venni venduto ad un mercante di schiavi, uno gnomo di nome Copperbone. Dopo un mese di viaggio, mi vendette ad un addestratore di gladiatori sulla Costa del Drago, un posto di malviventi e tagliagole, dove si sopravvive solo se si combatte. Fu lì che mi avvicinai al combattimento per il quale ero particolarmente portato. Il mio “battesimo del sangue” non me lo scorderò mai: fui buttato in una fossa di combattimento, posto in cui coloro che sopravvivevano potevano in seguito calcare la sabbia dell’arena. Con solo una pessima spada come compagna, dovetti affrontare un ogre, Durmatuul, il campione delle fosse: una creatura immensa che brandiva un’ascia che avrebbe senza difficoltà tagliato un cinghiale in due. Decidetti di puntare sull’agilità, ma il bastardo riusciva a tenere testa ai miei attacchi, ma quando le forze stavano per abbandonarmi ecco che dentro di me si fece strada una sensazione già conosciuta, un furore bestiale che irrorò le mie membra di nuova potenza, una furia cieca senza controllo. In preda a questo furore mi gettai contro Durmatuul; i miei fendenti erano rapidi e potenti e ben presto cominciarono ad andare a segno: feci a pezzi l’ogre letteralmente. Mi svegliai in un posto sconosciuto, una stanza pulita, non ricca ma dignitosa con tutto ciò che mi poteva servire. Poco dopo entrò un uomo: l’età doveva essere avanzata, circa sessant’anni, ma la corporatura era tutt’altro che di un uomo anziano, ampio torace e spalle robuste, braccia e gambe muscolose, riccamente vestito: “Sono Aiman, un addestratore di gladiatori. Ti ho comprato un paio di giorni fa da quel meschino di Copperbone. La tua prestazione contro Durmatuul è stata notevole, rozza e impulsiva, ma notevole. Hai un grande potenziale, Findaroth, ma bisogna affinare quel dono che ti è stato dato. Dentro di te è insita la rabbia del Berserker, una furia distruttrice di antico lignaggio. Solo pochi tra i migliori combattenti del Faerun possono dire di averla e, tra loro, ancora meno possono dire di sfruttarla appieno. Io ti insegnerò a domare questa furia, a trarre da essa la potenza che ti serve a vincere gli scontri, e a darti uno stile di combattimento degno di questo nome. Io ti forgerò come mio campione e guadagnerai onore e gloria sulla sabbia delle arene della Costa del Drago e, chissà, magari anche la libertà. Preparati che cominciamo subito”. E fu così che cominciai il mio cammino di gladiatore. Alle sessioni di addestramento marziale, si susseguivano sedute di meditazione con uno sciamano che mi aiutava a scoprire il mio lato bestiale e primordiale, a comprenderlo, a domarlo e a sfruttarlo. E i risultati arrivarono subito, cominciai a vincere e a farmi un nome tra i combattenti dell’arena, e il mio padrone si arricchiva con le mie vittorie. Così dopo qualche mese cominciai anche i combattimenti a squadre: tre guerrieri contro altri tre che si dovevano aggiudicare un posto ai Grandi Giochi di Arabel, in onore della Lady Lord, in memoria della cacciata degli orchi dalla capitale. La mia squadra era composta da uno gnomo incantatore, che divenne in seguito il mio migliore amico, di nome Greenbrush e da un’elfa duellante, Alysa. Eravamo davvero forti assieme, e ci facemmo strada durante i vari gironi eliminatori. Ormai avevo affinato il mio stile di combattimento e, dopo la prima importante vittoria contro i Massacratori Cremisi, un gruppo di gladiatori particolarmente feroce, Aiman mi fece dono di Bloodfang, un falchion di fattura eccellente, forgiato direttamente nelle fucine di Arabel, un’arma degna di un re. L’affiatamento tra di noi compagni di squadra crebbe, e con Alysa, anche al di fuori dell’arena. Arrivò il giorno dei Grandi Giochi di Arabel, e fu qui che accadde l’impensabile: le nostre vittorie ci portarono a scontrarci con gli Orsi d’Acciaio, la squadra di Durthar, un drow che si diceva addestrasse gladiatori proprio per la Lady Lord. All’inizio eravamo alla pari, ci scambiavamo colpi per studiarci, poi qualcosa andò storto: Greenbrush tentò di lanciare un incantesimo paralizzante per bloccare il mio avversario, un minotauro di nome Endruthal, gigantesco e feroce come pochi avversari contro cui mi sono battuto, ma fu come se le sue energie si fossero inspiegabilmente prosciugate. Anche Alysa stava avendo la peggio contro un mezzorco molto abile nell’uso del tridente. Accadde tutto rapidamente: Alysa cadde, sbilanciata dal mezzorco che stava per vibrare il colpo fatale. Senza pensarci mi gettai a sua protezione, riuscii a proteggerla ma non altrettanto bene protessi me stesso: il colpo fu deviato sul mio elmo, che venne scalzato dalla mia testa e scavò sul lato destro della mia faccia una profonda ferita che cominciò a sanguinare copiosamente. Fortunatamente il mio occhio non fu danneggiato. Tagliai il mezzorco in due. Stavo aiutando Alysa a rialzarsi quando sentii un’esplosione alle mie spalle: l’incantatore dell’altro gruppo, approfittando del momento di vulnerabilità di Greenbrush, gli scagliò addosso una palla di fuoco. Il suo corpo venne scagliato una trentina di metri indietro, privo di vita. In quel momento, rilasciai i miei freni inibitori, lasciai che la rabbia e la furia prendessero il sopravvento: come un fulmine mi gettai sull’elfo incantatore che aveva ucciso Greenbrush e lo tagliai a metà, non ricordo molto, solo che forse stava mormorando un qualche incantesimo di protezione; fu troppo lento. Con gli occhi bianchi e in preda alla furia, mi girai verso il minotauro: aveva paura, lo sentivo. Così iniziai a martellarlo di colpi: all’inizio mi stava dietro, poi cominciai a sopraffarlo. Un fendente alla pancia, uno su una gamba; era in ginocchio. Lo finii piantandogli la lama sotto il mento fino all’elsa. Cadde esanime. Ma la rabbia non si esauriva: in quel momento Alysa mi si avvicinò. Il mio subconscio le gridava di scappare, di allontanarsi perché non avrei controllato quello che poteva succedere. Ma non accadde nulla: la sua mano toccò il mio braccio e lentamente la mia furia si placava e dopo qualche minuto ritornai me stesso. Non svenni per la fatica, ma per la perdita di sangue in seguito alla ferita sul mio volto. Mi svegliai il giorno dopo, nel mio letto, Aiman seduto di fianco a me: “Eccoti finalmente tra i vivi, ragazzo- mi disse- abbiamo curato la tua ferita ma hai una gran brutta cicatrice sul lato destro del viso. Ho fatto fare questa per te”. Mi porse una mezza maschera d’acciaio per coprire la ferita, raffigurava un demone appartenente ad antiche leggende di cui si era perso il nome, lo chiamavano solo Rage. Riuscii solo a mormorare per chiedere dove fosse Alysa. Aiman mi rispose che l’aveva venduta ad una cifra altissima ad un mercante. Ma mi disse che non c’era motivo di rattristarsi perché ero un uomo libero, finalmente. Mi ci vollero un paio di mesi per rimettermi in sesto. Dato che non sapevo fare altro che combattere, mi guadagnavo da vivere come mercenario, combattendo al soldo di chiunque potesse permettersi l’ingaggio di un campione dell’arena. In realtà seguivo le voci di chiunque potesse darmi informazioni su Alysa, dovevo ritrovarla. Così nacque la leggenda di Rage, il mercenario sfregiato…”
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21/09/2016 06:54

CASI:

Background Cedrick Hammer

Il sole sorgeva sulla pianura col suo rosso bagliore, il sole sorgeva sul volto di un uomo intento a guardarlo ma senza vederlo, il sole sorgeva su Cedrick Hammer ,capelli e occhi neri, taglio profondo che solcava in obliquo il viso grondante sangue e un forte desiderio di rivalsa….
Neras Hammer , il padre di Cedrick era stato un guerriero al servizio di un signorotto locale dal nome strano. Non aveva particolari doti fisiche ma aveva un talento unico. Combatteva con un enorme scudo e sapeva utilizzarlo con grande agilità. Grazie a quell’abilità era riuscito ad avere la meglio anche su avversari più forti di lui fisicamente, ma che non erano stati tanto bravi da trovare uno spiraglio dove affondare la lama. Diceva sempre che era per quell’acciaio magico che aveva potuto mantenere tutti i suoi arti attaccati al corpo in tutti quegli anni di combattimento. Una volta messo da parte le monete che servivano aprì una fucina poco al di fuori di un piccolo paese di scarsa importanza nell’Amn, sposò la bella figlia dai capelli rossi di un contadino locale , Leliana, ed ebbe da lei Cedrick un anno dopo il matrimonio.
Fin da piccolo Cedrick lavorò nella fucina paterna, “il martello degli dei” imparando i segreti del metallo, conoscendo il calore del fuoco. Non appena compì 8 anni iniziò anche il suo addestramento. Ogni mattina il padre gli faceva indossare le pesanti protezioni per irrobustire i muscoli, ed imbracciate spada e scudo gli diceva scherzando “colpiscimi e la fucina sarà tua”. Dopo poco dal sorgere del sole iniziava di nuovo il lavoro nella forgia.
Crebbi sano e forte raggiungendo presto le dimensioni di mio padre e continuando l’ addestramento fino al mio quindicesimo compleanno. Mio padre mi insegnò tutto ciò che sapeva su come maneggiare le armi e le armature, su come far diventare spada e scudo un prolungamento delle mie braccia. Imparai come mantenere le lame efficienti e sempre affilate e come riparare i danni che armature e cotte di maglia subivano in combattimento. Imparai ad onorare gli dei, mio padre onorava Gond ma io non ebbi mai un motivo o un’affinità da rendermi profondamente devoto. Continuai ad apprendere fino al giorno in cui tutta la mia vita cambiò…
Una sera d’estate più fredda del solito arrivarono alla forgia dei guerrieri a cavallo tutti con un leone che ruggiva in rilievo sull’armatura. Cavalli leggeri e veloci. Mio padre uscì da dietro il mantice senza dire nulla rimanendo a guardarli. Uno di questi si fece avanti, aveva un occhio solo ed intimò :” devi ferrare tutti i cavalli prima di subito vecchio, non abbiamo tempo da perdere!”.Un secondo cavaliere scese da cavallo ed adocchiando il nostro orto disse:” non pensavo di trovare una donna prima di arrivare al Mar della Luna, mentre aspettiamo io mi diverto un po’ con quella baldracca..”non adocchiava l’orto ma mia madre …. e allora successe tutto in fretta … Neras corse dentro ed uscì con una spada ancora arroventata che stava temprando e con il suo imponente scudo nella sinistra …. il guerriero che camminava verso l’orto non si rese neanche conto di cosa lo investì … con una possente scudata lo scaraventò a terra rintronandolo. Mentre il capo partì al galoppo Neras urlò “Cedrick porta via tua madre” ma non lo ascoltai ed imbracciai anche io le armi, non potevo abbandonarlo così, avrei combattuto. Mentre mi dirigevo al guerriero più vicino vidi mio padre far abbattere il cavallo dell’uomo con un occhio solo contro il suo scudo piantato nel terreno disarcionandolo. Il secondo cavaliere non fu così incauto e girò l’animale per attaccare dal lato. Subito una grossa ascia mi fu addosso ma parai agilmente con lo scudo, l’uomo che avevo davanti possedeva una gran forza e io non avevo l’armatura, dovevo stare molto attento ora non stavo più in allenamento. Una raffica di fendenti fecero volare schegge ovunque fino a che con una parata alta fui in grado di colpire il braccio del guerriero ma subito anche il secondo mi attaccò. Neras riuscì ad affondare la lama nella coscia di uno dei tre che lo attaccavano spezzandogli l’osso e dilaniandone le carni ma il capo con un occhio solo rialzandosi gli arrivò alle spalle e lo trafisse alla schiena. Un urlo nero mi si soffocò in gola, caricando tutto il mio peso sullo scudo colpii in pieno petto sul marchio del leone uno dei due che avevo davanti abbattendolo, il quale inciampò nell’altro ostacolandolo, corsi verso mio padre parando un fendente di uno dei tre che lo circondavano ma non vidi arrivare l’ascia dell’altro che mi colpì in pieno viso squarciandomi in obliquo dalla fronte sopra l’occhio destro fino alla guancia sinistra…..vidi tutto rosso…poi la vista si affievolii e caddi non vedendo più nulla…l’ultima cosa che sentii fu “Darius guardagli la gamba, nostro padre non lo metterà con noi al comando dei battaglioni della compagnia dell’Ascia Infuocata”. “Hunthor prendi delle bende … mmm non servirà a niente perde troppo sangue… dì addio alla tua gamba caro fratello” “ No! Nooooo!”
Mi svegliai quando un altro cavaliere mi scosse…”Non temere ragazzo, mi chiamo Torin non ti farò del male” “hai la pelle dura,pensavo saresti morto, hai perso molto sangue quindi non strapparti le bende”. A fatica mi rialzai, doveva essere passato del tempo, mio padre era in una pozza di sangue coagulato poco distante da me, la fucina era mezza bruciata , riuscivo a vedere solo che avevano divelto il mantice e probabilmente tutti gli altri attrezzi. “dov’è mia madre..?” domandai e Torin rispose “è meglio che non vai a vedere, adesso andrò a seppellirla”.
La mattina seguente consegnai a Torin un’ armatura nuova e gli diedi il permesso di prendere qualunque arma potesse interessargli. Quei bastardi col leone in rilievo avevano portato via i nostri due cavalli ma non si erano neanche degnati di portare via le armi di valore che non erano in vista, avevano solo distrutto tutto. Recuperai le monete nascoste in casa, lo scudo e la mia armatura con le lucenti spine in rilievo,e partii con Torin. Non sarebbe andato al Mar della Luna subito ma tanto ancora dovevo allenarmi e migliorare per avere la mia vendetta. In cambio dell’armatura che gli regalai accettò di portarmi con sé e continuare il mio addestramento fino a che le nostre vie non avrebbero preso direzioni opposte, la sua verso altro denaro, la mia verso la giusta vendetta.
“Che Tyr mi sia testimone … la casa del Leone pagherà il sangue che mi deve”
Il sole sorgeva sulla pianura col suo rosso bagliore, il sole sorgeva sul volto di un uomo intento a guardarlo ma senza vederlo, il sole sorgeva su Cedrick Hammer ,capelli e occhi neri, taglio profondo che solcava in obliquo il viso grondante sangue e un forte desiderio di rivalsa….
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21/09/2016 06:55

LUCA:

Background Filix Altéa

"Tu ami John?"
Patrice volse lo sguardo verso Sam, la sua ancella e confidente sin da quando era bambina. Un raggio di sole accarezzò i suoi capelli ramati nel preciso istante in cui inclinò lievemente il viso in sua direzione. Poi tornò sul fazzoletto di cotone che stava ricamando.
“Tu ami John?” incalzò Sam mentre riprese a leggere il libro di sonetti cavallereschi che era solita consultare in presenza di Patrice la sera, dinnanzi al fuoco, durante quegli istanti che separano la cena dall’ora di infilarsi sotto le lenzuola di seta.
Patrice tornò a guardare Sam. Non lo fece con disapprovazione, benché la differenza sociale le avrebbe potuto permettere di punire facilmente tanta insolenza, ma con imbarazzo. Strette il fazzoletto nella mano sinistra mentre appoggiò l’ago sul piccolo tavolino in ferro battuto che le faceva da supporto. Entro due settimane avrebbe dovuto sposarlo.
“Vuoi dire come tu amavi Sigfrid?” rispose piccatamente Patrice.
Sigrfrid era un abile fabbro e Sam fu sua moglie fino a quattro estati prima, quando fu sorpresa a letto con Huber Von Stankavlov, signore delle terre nordiche giunto in visita a palazzo per intrattenere e consolidare i soliti proficui rapporti commerciali. Ovviamente il tutto si risolse senza un’esecuzione in pubblica piazza per adulterio solo per l’intercessione di Patrice con suo padre, Utrecht, il nobile che controllava tutte le vallate della zona.
“Dimentica me e Sigfrid” rispose ancor più acidamente Sam chiudendo con fragore il libro e lanciandolo sulla poltrona poco distante da lei. “Intendi sposarlo?” riprese poi l’ancella, tornando seria e sfoggiando un sorriso quasi consolatore.
Patrice socchiuse gli occhi un attimo, poggiando la mano sul suo ventre per qualche istante, per poi rispondere con franchezza: “è probabile”.
“Ascolta… vado pazza per quel ragazzo. È intelligente, intraprendente, potrebbe portare il tuo regno a ricchezza e prosperità per chissà quanti lustri ancora, qualora dovesse venire a mancare tuo padre prematuramente.”
Patrice annuì convinta. “E allora cos’è che non va?”.
“Vale per me, io sto parlando di te.”
La giovane nobile abbassò per un attimo lo sguardo, per poi volgerlo nuovamente verso Sam.
“Non è quello che dici di John” riprese l’ancella “è quello che non dici…!”
“Forse non ascolti.”
“Oh si invece… non c’è ombra di trasalimento, non un bisbiglio di eccitazione. Questo rapporto ha la stessa passione di una coppia di rinoceronti del Thay. Voglio che qualcuno ti travolga, voglio… voglio che tu leviti, voglio che tu… canti con rapimento e danzi come una pixie.”
“Ah tutto qua??” rispose ridendo Patrice.
“Si, abbi una felicità delirante! O almeno non respingerla”
“Va bene… abbi una felicità delirante. Vedrò… vedrò di fare il possibile.” E continuò sorridendo.
Sam si unì alla risata. “Lo so che ti suona smielato… ma l’amore è passione, ossessione… qualcuno senza cui non vivi. Io ti dico: buttati a capofitto! Trova qualcuno da amare alla follia e che ti ami alla stessa maniera. Come trovarlo? Dimentica il tuo cervello e ascolta il tuo cuore. Io non sento il tuo cuore. Perché la verità, tesoro, è che non ha senso vivere se manca questo. Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, beh, equivale a non vivere. Ma devi tentare, perché se non hai tentato, non hai mai vissuto.”
“Brava Sam” si lasciò scappare Patrice guardandola “Ma io non posso. So che sai tutto, so che sai del bambino… ma non posso stare con Caladriel”
“Ma cosa credi che avverrà quando ciò che porti nel grembo vedrà la luce? Con delle orecchie a punta, poi??”
Patrice chinò di nuovo il capo, cingendo il proprio ventre in un abbraccio carico d’amore.
“John lo ammazzerà. E se non lo farà lui, sarà mio padre.”
“Impedisciglielo, trova il modo.”
Trova il modo. Ma come? Patrice se lo domandava tutti i giorni.
Passarono mesi e quel giorno arrivò. Il travaglio fu lungo e, così come pianificato per tutto quel tempo, il piccolo nacque ma fu simulata la sua morte. Al parto poté assistere solo Sam, come da desiderio di Patrice, e nessuno ebbe da ridire. Concluso il tutto, mentre con un’incredibile forza di volontà Patrice pulì il bambino e lo fasciò per poi dirigersi alle stalle dove l’attendeva il suo destriero, l’ancella si diresse nelle stanze di John per comunicargli i terribile evento.
“Il vostro erede è deceduto sire”
John versava su uno dei divani del salone principale, cingendo un calice d’argento ricolmo di vino con la mano sinistra, mentre con la destra picchiettava nervosamente sul tavolo. “Molto bene, altrimenti l’avrei ucciso io”.
Il volto di Sam si marchiò di orrore “Ma che dite, sire!”
“Non prendermi in giro, puttana. Credi che io non sapessi di chi fosse? Mentre mia moglie si dispera per aver perso il figlio di quell’elfo qualcuno deve avere già impalato la testa di quello stolto da qualche parte alle porte della nostra città” ghignò socchiudendo gli occhi con soddisfazione.
“Ma signore, davvero, non capisco a cosa stiate alludendo”.
“Ti ho appena detto” si alzò bruscamente il nobile sbattendo il pugno destro sul tavolo “di non prendermi per il culo, puttana” e le gettò con vigore il vino sul volto.
“Ma…”
John non le permise ulteriore sillaba e con un gesto ancor più crudele, di rovescio, usò il calice come arma impropria sul viso dell’ancella.
Sam cadde a terra, mentre una profonda ferita le segnò la guancia sinistra. Il sangue, rosso e vivace, iniziò la sua corsa verso il mento.
“Sire” riprese con voce calma, cercando di trattenere il dolore dello zigomo che, probabilmente, si era rotto “vostra moglie non farebbe mai nulla di simile”. Ed effettivamente non disse il falso, dato che da quando era moglie di John, tecnicamente, non si era consumato nessun tradimento.
“Taci, puttana!” e con un calcio il nobile colpì il torace della donna. Era evidentemente ubriaco. John non era un uomo malvagio, ma quell’onta non poteva non essere lavata se non con il sangue di chi aveva compromesso il suo onore. “Quell’elfo deve ringraziare il suo dio che il bambino non sia morto per mano mia” urlò “altrimenti anche lui rimarrebbe intrappolato tra le mura di Kelemvor!”
Respirando a fatica Sam non poté far altro che sgranare gli occhi. Al povero Caladriel erano stati negati i riti funebri, e la sua anima non avrebbe mai passeggiato nell’oltretomba. Per sua fortuna il piccolo era salvo.
“Un momento…” si accigliò il nobile. “Se tu l’hai coperta per tutto questo tempo…”
“No sire, io…” rispose l’ancella, cercando di alzarsi da terra, ma l’uomo era già uscito dalla stanza.

(A breve la prossima parte)

“Vai Sybil!” Patrice, abile a cavallo, impartì l’ordine dando un piccolo scossone alla briglia che teneva nella mano destra mentre con la sinistra cingeva il piccolo fagotto in seta azzurra dentro la quale era avvolto il bambino. La giumenta volgeva al galoppo tra le folte praterie ad est del villaggio di cacciatori con la luna che, piena e luminosa, indicava la via per la steppa selvaggia.
Nervosamente e con regolarità la nobildonna volgeva dietro di se lo sguardo per assicurarsi di non essere seguita, quand’ecco che notò in lontananza quella che la luce a disposizione lasciava intravedere come la sagoma di un uomo a cavallo. La polvere sollevata dagli zoccoli del cavallo su cui era in arcione non permettevano di definire al meglio l’individuo ma Patrice, in cuor suo, sapeva bene che si trattasse di John.
La figura del marito si avvicinava inesorabilmente quando la ragazza decise di celarsi in qualche modo dietro un folto cespuglio per nascondere in una piccola tana di tasso il fagotto del nascituro.
Coprì l’ingresso della tana con alcuni rami secchi che raccolse in zona per poi, con le lacrime che le irrigavano il volto, tornare in sella a Sybil.
Stava per dare l’ordine di ripartire quando una voce la fece trasalire: “Non così in fretta!”
“John… lasciami andare…”
Il marito teneva la spada puntata sulla gola della giumenta mentre ne teneva le briglie con la mano sinistra.
“Non lascerò che le mie terre vengano ereditate da un mezzosangue.”
“Ma è un bambino!”.
“Dimmi dov’è e non farmi perdere tempo.”
“No.”
Con un colpo netto la giugulare di Sybil venne recisa e la cavalla, con grande dignità, lasciò che la vita l’abbandonasse senza mettere a repentaglio quella della propria cavaliera la quale venne quasi accompagnata a terra mentre il destriero perse le forze per poi morire.
“Sybil…”
“La prossima sarai tu se non fai il tuo dovere di moglie. Dov’è il pargolo?”
D’un tratto un piccolo gemito su udì provenire dal nascondiglio improvvisato da Patrice. Il volto di John si segnò con un sorriso soddisfatto.
“No John, lascialo!”
“Taci!”
Patrice corse verso l’uomo e con tutte le forze rimaste, per essere una donna che aveva appena intrapreso un travaglio, riuscì a sbilanciarlo e farlo cadere a terra. La spada che John teneva nella mano destra cadde e d’impeto l’uomo si voltò verso la nobildonna.
Il piccolo, nonostante non potesse vedere la scena, iniziò a piangere.
Patrice era a terra, esausta, ma con l’energia che solo una donna che vede il proprio figlio in pericolo può avere, riuscì ad alzarsi di nuovo.
John di rovescio colpì col guanto d’arme la moglie e con disprezzo raccolse l’arma.
“Sei sempre stata una donna debole.”
Tornò a voltarsi verso la tana ed iniziò a rimuovere i rami posti a protezione del nascondiglio. Fu in quel preciso istante che sentì un forte colpo al cranio. Riuscì a voltarsi appena in tempo per vedere Patrice con in mano una grossa pietra che stava per colpirlo una seconda volta. D’istinto, il senso che nella sopravvivenza molto spesso è in grado di far la differenza, portò a protezione del proprio volto la propria spada e con un gesto tanto scoordinato quanto crudele recise di netto la testa di quella che un tempo era solito chiamare moglie.
Portò la mano libera alla propria testa per poi osservarne il palmo sporco di sangue. Di ritorno a palazzo il sacerdote avrebbe saputo rimarginarla con facilità.
Pulì la mano su un lembo del proprio mantello e riprese a liberare l’accesso alla tana. Terminato il lavoro si chinò sulle ginocchia e infilò la mano al suo interno. Riuscì a tastare tre volte il terreno prima di sentire la pregiata seta sotto i propri polpastrelli. Prese a se il fagotto e si alzò in piedi tenendo il bambino per un braccio mentre il nodo che legava il tessuto attorno al pargolo si sciolse, denudandolo.
“Non guardarmi così” disse l’uomo con voce calma “La tua vita sarebbe stata una merda comunque. Sei un maledetto mezz’elfo, nessuno rispetta i mezz’elfi. Non devi prendertela con me, se tua madre non avesse gradito oltremodo i bacia alberi, tu non saresti neanche nato e non dovresti subire tutto questo.”
Il bambino piangeva, guardava l’uomo. Poi smise.
“Ecco bravo, non piangere più” disse John mentre dispose il corpo del bambino a terra ed estrasse nuovamente l’arma.
Il piccolo sembrava sorridesse ora. John si sentì in imbarazzo. Il bambino sembrava guardasse dietro di lui.

(A breve la prossima parte)
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