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La Corte
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IL Cammino Del Male

Ultimo Aggiornamento: 21/09/2016 07:03
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21/09/2016 06:56

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Avventura tappabuchi tra le sessioni principali quando manca qualche elemento del party.
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21/09/2016 06:57

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Arak Hiranarosh - Chierico di Bane lvl 8

Arak nasce nella città di Zhentil Keep da una famiglia altolocata alle dipendenze del palazzo di Lord Fzoul Chembryl. La luna splendeva piena nel cielo terso di quella notte e i suoi raggi pallidi filtravano dalle strette finestre della torre. Le litanie dei devoti al Signore Nero serpeggiavano negli stretti corridoi del castello e davano il benvenuto al primogenito della casa. Il padre, Yorgham Hiranarosh è un chierico anziano della chiesa banita e sin dai primi pleniluni ha iniziato il figlio Arak al culto del Nero Tiranno. Egli stesso ha sempre affermato che la nascita di Arak fosse benedetta sicchè la madre morì ancor prima che il busto del neonato fosse fuori dal suo corpo. 'Una nascita benedetta dal sangue e dalla morte', diceva lui tronfio. Prova di questa benedizione sono i suoi capelli vermigli come il sangue dei sacrifici porti al Maestro dell'Ombra.
L'infanzia Arak non l'ha mai percepita, non sa nemmeno cos'è, ha sin da piccolo partecipato ai riti della Mano Nera come paggetto, quando non si pregava, si studiava e quando non si facevano entrambe le cose l'anziana zia, ex malarita convertita al culto dell'Unico, gli insegnava a mescere pozioni con altri ingredienti per generare subdoli mezzucci per creare caos, pestilenza e depravazione all'interno delle masse attraverso l'alchimia nera.
Passavano gli anni e Arak cresceva alla luce della luna, isolato dal mondo comune. La sua filosofia e il suo culto cieco si sono rafforzati sempre più, così come i suoi poteri malvagi. Adorava torturare i servitori ed era in prima fila quando c'era da assistere ad un sacrificio di qualche stupido cyirita convinto o qualche infante dagli occhi chiari come il cielo e i capelli biondi come raggi di sole. Puah.
Seguendo le orme del padre, ha intrapreso la via del culto estremo, la totale devozione all'Oscuro divenendo così un promettente membro della casta clericale a Zhentil Keep.
Tuttavia le parole del Tiranno impongono ai suoi seguaci di diffondere l'orrore e la paura in tutte le città del Faerun, fu così che Arak chiese il permesso allo stesso Fzoul e a suo padre di 'partire e diffondere il verbo' altrove.
Seguì un grande rito a palazzo in cui vennero sacrificati un cyrita, due tormiani, tre bambini e due donne incinte per augurare buona fortuna alla promettente recluta del clero banita culminato con l'impressione del Sigillo del Nero Tiranno a fuoco al centro del petto del giovane chierico.
Arak ricevette due doni: Il Guanto Nero di Bane [guanto d'arme] da Fzoul e la Portatrice d'Odio [morning star] del padre, a sua detta, troppo vecchio per imbracciarla ancora. Questi sono i suoi veri tesori, sacri e intoccabili.

La sua personalità è cupa e cinica. Come Bane insegna per disseminare il caos è necessario saper usare la scaltrezza e non lasciarsi mai prendere dalla fretta. Dopotutto, 'Arrivare alla meta è la metà del divertimento' [cit. Manuale e Fedi e Phanteon].
Ha sempre preferito piegare la volontà di chi gli è di fronte con l'arguzia e la retorica piuttosto che con la forza bruta, evitando di incappare in condanne o arresti. E' molto istruito, sa leggere bene nel cuore delle persone ed è preparato nell'arte della guarigione. Non è un solitario ed è solito collaborare con altri per perseguire il suo fine ultimo: far crollare le colonne portanti della società dalle quali risorgerà più forte il culto di Bane.
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21/09/2016 06:59

LUCA:

Sharyan Blake - Maga Ammaliatrice Lvl 8

"Ehi tu ragazzina" disse l'anziano signore con la barba bianca lunga e il cappello a punta "La vuoi quella mela?"
Sharyan era figlia di una lavapiatti di una nota locanda di Whitehorn, il padre le aveva lasciate poco dopo la sua nascita per seguire la vita da avventuriero. Da allora non era più tornato e probabilmente le sue ossa ora facevano parte delle mura di Kelemvor. La bambina mangiava una volta al giorno e non era facile arrivare al giorno successivo. Durante le ore del mercato, mentre aspettava che la madre terminasse il turno in locanda, si sedeva sui barili vuoti lasciati ai bordi delle bancarelle e osservava i banconi della frutta e della verdura. Era così bella, colorata e chi la mangiava parlava di sconosciute note di dolcezza. Lei studiava la buccia di ognuno di quei frutti e passava ore sognando di poggiarvi sopra la sua bocca e, dopo aver sospirato, mangiarne la succulenta polpa.
"Ti hanno tolto l'uso della lingua?" ribatté il vecchio sorridendo "La vuoi?"
"Mia madre mi ha detto di non accettare nulla da chi non conosco..." Rispose timidamente "E io non ti conosco".
L'uomo corrugò la fronte e lasciò trasparire una lieve smorfia di disappunto. Si chinò sulle ginocchia aiutandosi col bastone per mettersi alla stessa altezza della bimba e rispose "Non te l'hanno insegnato che a chi è più anziano di te bisogna sempre dare del voi?"
"Tutto quello che so me l'ha detto mia mamma e lei ha detto che..."
"Dov'è tua mamma? Ci voglio parlare."
Sharyan indicò la locanda poco distante e il vecchio tornò in piedi.
"Allora andremo a chiedere a lei l'autorizzazione a regalarti quella mela..."

Raggiunsero velocemente la locanda. Il vecchio spalancò la porta della "Conchiglia Frantumata" con l'ausilio del suo bastone mentre la bimba entrò timidamente dietro di lui.
"Sharyan" urlò una donna da dietro il bancone "quante volte ti ho detto di non..."
"Le ho chiesto io di condurmi da voi madama" rispose l'anziano. "Il mio nome è Nathan Blake e vengo da Ilinvur. Sono uno studioso. Mi permettete di intrattenere due parole con voi?" disse sorridendo mostrando una moneta d'argento.
"C... certo" rispose la donna osservando la moneta e subito dopo sua figlia.
"Seguitemi in fondo alla stanza, vorrei parlarvi lontano dalle orecchie di vostra figlia".

I due si allontanarono e Sharyan si sedette ad uno dei tavoli liberi. Subito un cameriere si recò al tavolo.
"Cosa posso portarvi per rifocillare il vostro desco damigella?"
Sharyan si voltò verso la voce con aria stupefatta "Karl ma che dici? Sono Sharyan!"
"Cosa posso portarvi per rifocillare il vostro desco damigella?" ripeté.
Sharyan pensò fosse uno dei suoi soliti scherzi e si lasciò andare ad un'ordinazione "Frutta! Tanta, tantissima frutta!"
L'inserviente si allontanò sorridente e Sharyan potè tornare con l'attenzione a sua madre che parlava ancora con l'anziano signore. Non riusciva a capire molto; vedeva solo la madre che scuoteva il capo abbastanza contrariata e lui che parlava, a volte gesticolando. Poi lui le poggiò la mano sulla spalla e mentre lui le sussurrava qualcosa nell'orecchio lei sembrò quasi disorientata.

"Ecco la vostra frutta milady" disse Karl con un cesto colmo della più bella e colorata frutta che Sharyan avesse mai visto.
"Io la mangio sul serio eh!"
"Ecco la vostra frutta milady" e se ne andò.

Sharyan prese la più grossa pesca che il cesto contenesse. Dovette tenerla con due mani. Dapprima passò la sua pelle liscia sotto il suo naso respirando profondamente. Era un profumo unico, intento e allo stesso tempo delicato. Accarezzò la buccia lucida e vide il suo volto riflesso. Stava sorridendo. Prima che qualcuno le dicesse di non farlo addentò con tutta la sua forza. Incredibilmente nessuno ebbe a che ridire e la piccola potè concentrarsi sul sapore. Era dolce, immenso. Era dolce come quella volta che tenne in mano un gattino randagio trovato nei pressi del retro della cucina della locanda. Ancora non sapeva che quel gatto, la madre, l'avrebbe cucinato la sera stessa per risparmiare il cibo del giorno.

Dopo il secondo morso sua madre e Nathan erano magicamente davanti al suo tavolo.
"Sharyan" disse la madre "devi andare col signor Nathan".
Con lo sguardo carico di paura la bambina passò gli occhi immediatamente sulla madre. La pesca le cadde di mano.
"Mamma, perchè?" disse incominciando a piangere "non mi vuoi più?"
"No piccola" rispose il vecchio mentre la madre rimase immobile "tua mamma ti vuole tanto bene e vuole che vieni con me per studiare. E quando sarai colta e ricca potrai tornare da lei per aiutarla a vivere una vecchiaia migliore"
"Ma io non voglio essere ricca" rispose Sharyan "io voglio stare con la mamma anche se sono povera" le lacrime sgorgavano come torrenti in piena "io voglio vivere con te mamma".
"Devi andare col signor Nathan" rispose la madre "Sharyan"
"Ma io..."
"Non ti hanno mai insegnato che si obbedisce ai genitori ragazzina?" intervenne Nathan "e ora andiamo".
Il vecchio la prese per il braccio e di colpo Sharyan si sentì calma e confusa. La testa le girava. La stanza centrale della locanda sembrò dapprima piccolissima e poi immensa e in un attimo si trovò alla luce del sole sul carro di Nathan.

Passò qualche tempo e riprese piena conoscenza. Ora tutto era più chiaro. Si trovava in una grande stanza colma di libri illuminata da alcune lanterne ad olio. Nathan era davanti a lei con una tunica diversa, totalmente rossa.
"Eccoti qua tra noi" sorrise il vecchio. "Volevo aspettare che fossi totalmente in te prima di iniziare".
"Iniziare cosa?" rispose Sharyan ancora, in realtà, confusa. Confusa dalla situazione, dal tempo che sembrava essersi contratto, da un uomo, una casa e degli odori che non aveva mai percepito prima.
"Questo" rispose il vecchio mentre le distanziò lentamente le gambe. Fu in quel preciso istante che comprese di avere addosso un abito mai indossato prima. Era pieno di pizzi orlati di organza di color bianco e oro. Non aveva mai indossato un abito tanto bello. Aveva ai piedi anche delle scarpette bianche. Non ne aveva mai posseduto un paio.

La mano di Nathan le accarezzò la piccola caviglia. Un grosso anello d'oro con un vistoso diamante l'adornavano. Sembrava la mano più grande che lei avesse mai visto.

"Lasciami stare!" gridò Sharyan e subito un violento schiaffo le gonfio la guancia destra.
"Non ti hanno mai detto che a una persona più grande di te devi dare del voi? No?" Un altro schiaffo impattò col suo volto e stavolta l'anello scavò un piccolo graffio. "E' il caso che impari allora."
Sharyan iniziò a respirare forte per cercare di trattenere le lacrime che stavano per scorrerle dagli occhi. Temeva un altro vigoroso ceffone.

La mano raggiunse le ginocchia e poi si fermò sul suo sesso. Dapprima percepì gli aridi polpastrelli giocare con la sua vanità, poi un dito la penetrò e un piccolo grido di dolore si propagò dalla sua bocca.
Immediatamente un trepitante schiaffo le segnò la guancia. Lei si morse il labbrò e pregò con tutta la sua forza che l'aria terminasse di finirle nei polmoni quando riuscì a percepire distintamente l'anello che aveva visto prima entrare e uscire da dentro di se.

Il vecchio le insegnò l'educazione, la dialettica, le lingue, il valore delle cose, la storia, la geografia, l'estetica, la filosofia, l'arte in genere e, soprattutto, la magia. E ogni sera, dopo cena, per anni, il vecchio la prendeva come meglio riteneva, per insegnarle l'antica arte del sesso. Molte volte Sharyan cercò di scappare da quel vecchio e ogni volta che ci provò Nathan le fece patire le peggiori pene che la mente umana potesse immaginare.

Molte lune si alternarono e Sharyan crebbe in cultura e bellezza. Il suo cuore era sempre più imbrunito dalla vita priva di felicità che caratterizzava ogni suo giorno. Dolore, tristezza ed un immenso odio attanagliavano i suoi pensieri. Un solo pensiero balenava costantemente nella sua mente, la vendetta.

Mise a punto il suo piano in una sera d'estate. Dopo cena Nathan le ordinò di indossare il vestito nuovo che le aveva comprato al mercato di Zenthil Keep il giorno stesso e le impose di farsi quanto più bella fosse in grado di fare.
Sharyan sembrava un angelo. I suoi tristi occhi color ghiaccio venivano costantemente richiamati dal turchese dell'abito mentre i lunghi capelli biondi sembravano fondersi con le cuciture dorate. Con un incantesimo semplicissimo mise a punto un trucco splendido per il suo volto e lasciò che due gocce di essenza di viola le bagnassero il collo.
Quando Nathan la vide quasi trasalì. Si alzò subito dalla poltrona sulla quale stava leggendo e immediatamente il suo volto lasciò spazio al sorriso che compariva sul suo viso ogni volta che aveva intenzione di iniziare il suo, personalissimo, "rituale".
"Vieni qua" disse il vecchio mentre si sfilò la cintura per buttarla sulla poltrona.
Sharyan si avvicino e lui, con forza, la appoggiò sul tavolo davanti a se. Scostò con passione la gonna a ventaglio e di nuovo, l'anello, cominciò ad entrare e uscire dalla sua vagina. Sharyan si lasciò andare a qualche gemito. I gemiti le erano concessi e sovente lui la incitava a farne qualcuno. Più lei gemeva e più lui respirava con affanno. Ad un certo punto la ragazza spinse il vecchio con tutte le sue forze e gridò un "No" che echeggiò nella sala.
"Ti ho sempre detto che..."
Il mago non fece in tempo a finire la frase che Sharyan corse velocemente nell'anticamera oltre la porta del salone. Il vecchio sibilò alcune parole arcane ed immediatamente dopo ricorse la giovane con un vigore tipico di decine di anni prima. Voltò due angoli e vide la figura blu correre verso la sua camera. Era in trappola.
Nathan, pregustando le percosse che avrebbero arrossato la bianca pelle di Sharyan, corse con ancora più forza. Sharyan si buttò sul letto piangendo. Fu allora che quasi con uno scatto felino il mago saltò per finirle sopra. Con enorme sgomento notò la figura scomparire e lasciare spazio al materasso con al suo centro un'ampia lama di spada che sporgeva.

Il vecchio rantolò per il dolore. Non riusciva a disincastrarsi dalla presa che la spada faceva sul suo sterno. Ad ogni tentativo di sfilarla sentiva la vita che lentamente lo abbandonava. Cercò di calmarsi per trovare la concentrazione tale da consentirgli il lancio di qualche incantesimo ma il dolore era troppo. Allora avvicinò la mano alla sua borsa delle pozioni che teneva nella borsa foderata alla cintura.

"Cerchi questa?" rise Sharyan camminando per la camera fino a giungergli dinnanzi. Nella sua mano destra la ragazza teneva in mano la borsa da cinta contenente le pozioni che avrebbero potuto salvargli la vita.
"Dammene una" disse Nathan "E ti lascerò libera. Ti riempirò di denaro ma dammene una".
"Oh certo" rispose la ragazza "E poi tornerò ricca da mia madre per farle vivere una migliore vecchiaia, vero?". Rise con una cattiveria che sorprese lo stesso mago.
"Io... io... ti..."
"Tu mi preghi. Vero? Come io ho fatto per anni pregandoti di non infilare nulla che facesse parte del tuo lurido corpo dentro di me. Non è vero?"
Ormai la vista si stava appannando, Nathan non aveva più molto tempo prima che avvenisse l'inevitabile.
"Dammela, ti prego" disse mentre un fiotto di sangue lo costrinse a tossire.
"Te l'ho già data, non ricordi?" rispose Sharyan ridendo. "Ora lascia che sia io a prendermi ciò che mi spetta. Prenderò questo anello" disse mentre senza che il mago riuscisse a fare alcuna resistenza glie lo sfilò dalla mano destra "perchè lui mi ha insegnato che per provare un grande piacere bisogna, molto spesso, superare molte sofferenze. Poi prenderò questo mantello affinché nessuno possa mai poggiare la mano sulla mia spalla come tu feci su quella di mia madre." E prese dall'appendiabiti della stanza il ricco mantello color oliva ricamato in fili d'argento e rune magiche. "Prenderò il tuo bastone, che è nel salone. Te lo dico perché credo che non riuscirai a vedermi mentre lo farò dato che, per ultimo, prenderò la tua insulsa vita!" E mentre le ultime parole crebbero di volume nella stanza le mani della ragazza si mossero con grande velocità ed una freccia verde composta di solo acido si materializzò nell'aria e si conficcò con violenza nella schiena di Nathan. Il mago spirò e un sorriso malvagio comparse sul volto di Sharyan.

Tutti in città la conoscevano come la figlia di Nathan per cui non fu difficile per lei ricostruire un incidente in casa che, a seguito dell'incendio che scaturì dallo stesso, carbonizzò il povero mago. Non le fu difficile neanche ereditare la fortuna del vecchio e con tutti i suoi averi recarsi alla sua vecchia città per trovare la "Conchiglia Frantumata" e dentro di essa, magari, ancora sua madre.


(Lascio in sospeso questa parte così Paolo se vuoi puoi giocare il fatto che la madre la trovo ancora lì, oppure è morta, oppure è stata rapita, oppure si è uccisa e magari avere uno spunto per far partire la mia avventura)
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21/09/2016 07:02

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L’Amn
L’Amn è un terra di mercanti, situata sulle coste delle terre dell’Intrigo. La gente è ossessionata dalla ricchezza. Per la gente dell’Amn il denaro viene prima di tutto, nelle altre regioni del Toril esso è il vettore che porta a Fama e Potere, ma non nell’Amn. Qui, la ricchezza, è fine a sé stessa. Dare sfoggio della propria ricchezza attraverso azioni benefiche è cosa comune, quasi socialmente obbligatoria. Ed è grazie a queste ingenti donazioni che l’orfanotrofio di Esmel-abbath, piccola ma prospera cittadina sul Lago Esmel, restava in piedi. Peccato che il direttore, Akhar Emith, spendesse i soldi delle donazioni in abiti eleganti per lui e le inservienti, per abbellire le sale aperte al pubblico e la facciata frontale dell’orfanotrofio. Quel poco che restava, andava nel cibo destinato agli orfani. Pane, acqua, frutta ed aceto che, allungato con l’acqua, disseta maggiormente, dicono. Fu in questo stabile che, una fredda notte in cui spirava brezza dal lago, venne lasciato sulla scalinata da una figura ammantata un pargoletto in fasce. Il pupo venne prontamente raccolto e annotato nell’elenco dei bambini, andando ad incrementare la somma di denaro sovvenzionata dal governo cittadino per gli orfanotrofi. Una piastrina di metallo sul braccialetto riportava il suo nome: Aadil.

Vita d’istituto
Con gli anni Aadil crebbe, un ragazzetto di otto anni, pelle olivastra, capelli neri come il piumaggio dei corvi e due occhi verdi come le acque limpide del Lago Esmel. La sua costituzione era decisamente inferiore a quella degli altri suoi camerati ma quello che perdeva in forza, lo sopperiva con l’agilità e la scaltrezza. Il cibo in orfanotrofio era quello che era, poco e pessimo. In compenso, erano tutti sempre molto curati nell’aspetto. Un bel vestito è segno di ricchezza dell’istituto, una pancia piena, passa inosservata. Fu all’età di otto anni e mezzo che Aadil, compì il suo primo furtarello al mercato della piazza centrale. Ben sette mele glassate dalla bancarella del vecchio Tarek, detto il Guercio. Da quel giorno, Aadil scoprì la sua vocazione, il furto.
Invisibile
Col tempo le sue imprese si fecero sempre più ardue, volte solo a compiacere sé stesso e farsi bello davanti agli altri ragazzini dell’orfanotrofio. All’età di 11 anni, Aadil divenne un’istituzione. Ma giunse anche il tempo della Methullà, ovvero l’età in cui un bambino non è più considerato tale dal governo cittadino e pertanto, non più fonte di guadagno per l’istituto. Gli vennero confiscati i vestiti, sostituiti con un paio di stracci logori donati probabilmente da una famiglia poco abbiente della periferia. Quindi, privato di qualsiasi suo avere, condotto alla porta dell’orfanotrofio. Una sola cosa restava ad Aadil, il suo talento.
Iniziò ad errare per le vie conosciute della città. Ma giunse la notte. Non si era mai trovato nelle strade di notte. Al tramonto, era sempre ritornato a casa, all’istituto, protetto a quelle mura e dal calore dei suoi fratelli. Per la prima volta, saggiò la temperatura della notte all’aperto, senza una coperta o quant’altro potesse schermarlo dal freddo di queste terre semidesertiche. Le vie desertiche, visuale ridotta, rumori di bottiglie rotte, le luci che uscivano dalla finestre delle locande. Si appoggiò ad una di queste, sbirciando dentro. Era una fumeria, un locale adibito al consumo dell’Oro Bruno, l’oppio. Restò per diverso tempo ad osservare finché i crampi dello stomaco non lo destarono dal suo torpore. S’incamminò nuovamente per le vie buie della città, guardandosi attorno. Poco lontano, due figure a cavallo venivano verso di lui. Inspirò profondamente e Aadil, iniziò a giocarsi le sue carte nella lunga partita della Vita.
In pochi mesi Aadil crebbe più che negli undici anni trascorsi in istituto. Viveva alla giornata, rubacchiando risorse prime al mercato e accaparrandosi qualche angolino rialzato nei vicoli oscuri della periferia su cui trascorrere la notte. Era uno dei tanti invisibili figli di nessuno che vivevano nell’ombra delle ricche botteghe. Le piccole risse che scoppiavano tra i ladruncoli di strada era all’ordine del giorno e Aadil imparò be presto che la forza bruta non era il suo forte. Sapeva schivare ma non riusciva mai ad assestare un colpo sufficiente da atterrare l’avversario, pe cui o lo prendeva per sfinimento o se la dava a gambe col maltolto. Fu in questo periodo vissuto nella periferia che una notte, venne svegliato da una fitta lancinante al braccio. Il suo corpo nervoso ed asciutto, scivolò sotto le gambe di colui che sembrava lo avesse colpito con un punteruolo o un lungo chiodo. Quando si rialzò, fece solo in tempo a schivare il secondo colpo che andò a scalfire lo straccio logoro che indossava. Il freddo pungeva tanto quanto la ferita nel braccio. Il silenzio venne rotto da una voce stridula, appartenente ad un ragazzetto poco più grande di lui . Alle parole seguì un secondo attacco, ma questa volta Aadil schivò e restituì il favore con un calcio al cavallo del suo avversario, che si accartocciò su sé stesso lasciando andare l’arma improvvisata. Aadil l’afferrò con una velocità ottenuta solo dopo anni di furti, gli ficcò il punteruolo nel palmo della mano e, dopo averlo riestratto, si dileguò nelle ombre lasciando il rivale, nemmeno visto in volto, a contorcersi dal doppio dolore.

Veleno
Passarono i giorni, Aadil cadde in preda ad una grave febbre, la ferita delle notti precedenti s’infettò, portandolo al limite delle sue forze. La vista si annebbiava progressivamente, la gola ardeva arida e la fronte, imperlinata dal sudore, raggiunse temperature insostenibili. Le sue gambe esili ad un tratto smisero di reggerlo. Cadde di faccia in un’anonima via polverosa dell’anonima periferia dell’anomia cittadina dell’Amn. La vita di Aadil era destinata a finire quel giorno, concludendosi probabilmente con un macabro funerale assistito da cani randagi ed uccelli spazzini. Fu quando cominciò a sentire i primi pungenti morsi dei corvi sulla pelle che qualcosa o qualcuno lo sollevò di peso, con poca fatica, essendo lui oltre che minuto, scheletrico. L’ultima cosa che vide prima di cedere al gelido buio fu un’insegna con scritto qualcosa “Arti A***” la seconda parola per lui era illeggibile, in parte per via delle sue condizioni, in parte per la sua pressoché nulla istruzione ricevuta all’orfanotrofio.
Il risveglio fu lento e doloroso. Le palpebre sembravano incollate tra loro da una crosticina giallastra, le lenzuola in cui si ritrovò erano ancora madide del suo sudore, le articolazioni gli dolevano da morire e così anche il braccio, segnato da un taglio lungo i cui lembi restavano uniti per mezzo di alcuni punti di sutura. La penombra non lo aiutava a capire dove si trovasse e le candele dalle fiammelle vibranti rendevano tutto più caldo e surreale. una voce gentile scosse il silenzio tombale della stanza, avvolta da pregiate vesti una sinuosa figura femminile si avvicinò al suo giaciglio, apparentemente improvvisato. La donna, mise la mano sulla fronte di Aadil lo spinse delicatamente di nuovo sul giaciglio . Passarono le ore, lente e monotone. La donna di tanto in tanto si palesava, portandogli qualche tozzo di pane imbevuto in latte di capra e miele. Pochi giorni furono sufficienti per fargli riprendere le forze. Aadil non aveva ancora proferito parola con la sua salvatrice. Nemmeno un grazie. La osservava, diffidente come una bestia selvatica, lei lo scherniva ma non calcava troppo la mano. Gli portava solo da mangiare e da bere qualche intruglio particolare. Alcuni giorni dopo Aadil riprese le forze, fu in grado di rialzarsi e camminare con il suo consueto passetto svelto. Giunse alla porta e la schiuse. Un penetrante odore dolce e pungente al contempo investì le sue nari, fece un passetto indietro ma ratto si abituò a quell’odore avvolgente e penetrante. Una litania nitida rimbalzava sulla cortina di fumo che per metà sino al soffitto aleggiava nella stanza. Camminando nella nebbiolina dolciastra si guardò intorno, corpi semisvenuti distesi su letti purpurei. Uomini di ogni genere e tipo, grassi e magri, ricchi e popolani, qualche non umano e nulla più. Si avvicinò incuriosito ad un tizio disteso quando, si sentì afferrare per un braccio con feroce vigore. la voce era distorta, rauca e altalenante. Con fredda paura Aadil si voltò, incontrando lo sguardo del nerboruto commerciante vestito di sola seta. disse l’uomo, tirandolo a sé con violenza mentre l’altra mano già frugava nei suoi pantaloni di raso che probabilmente la donna gli aveva sostituito. Dalla gola di Aadil non uscì parola, o suono alcuno. Il terrore l’aveva soggiogato. Proprio mentre l’alito dell’uomo iniziò a mescolarsi col suo accadde qualcosa di impensabile e sfuggente. Un lampo scarlatto colpì al collo grasso e flaccido l’uomo che ribaltò gli occhi all’indietro prima di lasciare la presa su Aadil e stramazzare sul letto come un ammasso di sterco caldo. Con occhi ancora sbarrati il ragazzetto fissò la schiumetta che fuoriusciva dalla bocca del porco. Poi distolse lo sguardo, spostandolo su ciò che l’aveva colpito. Era la donna. La sua salvatrice che, per la seconda volta, lo tirò fuori da una situazione compromessa. Nella mano aveva stretto un punteruolo finissimo, intriso di una sostanza bluastra. le domandò guardandolo con un sorriso beffardo. Aadil non disse nulla, degluttì e sgattaiolò via nell’altra stanza. Raccolse il lenzuolo, legandoselo addosso e fuggì dalla finestra senza dire nulla.

I Senzanome
Passarono i giorni dalla sua fuga, non ritornò in quel poso, non per paura ma per vergogna. Vergogna di avere abbandonato lì la sua salvatrice, per ben due volte, senza averle nemmeno detto grazie. Riprese la sua vita scostante, ingiusta e anonima ma con nel cuore un sentimento di vergogna e rivincita che lo spronarono a ripromettersi di saldare il suo debito con la donna una volta divenuto ricco.
Mesi dopo entrò in contatto con una piccola banda di periferia, si facevano chiamare “I Senzanome”. Erano una combriccola di giovani, organizzata alla bene in meglio, in cui vigeva la legge del più forte. Che ovviamente non era Aadil. Troppo gracile e troppo minuto. Inizialmente dava colpa alla sua vita sregolata e povera di cibo, tuttavia col passare degli anni si rese conto di essere proprio inferiore fisicamente. Abbastanza alto ma magro. Per sua fortuna, il cervello non gli mancava. Ripensò ogni notte alla donna, sua salvatrice, che stese quell’energumeno palla di lardo con un colpo repentino e quasi invisibile. Ripensò al punteruolo. Ripensò alla sostanza blu che solcava la punta. Ripensò alla sua infezione e a quanto l’avesse debilitato. Fu così che capì come sopperire alla sua mancanza di forza fisica. Lui era più veloce, era capace di sferrare velocemente pugni al corpo dell’avversario ma non riusciva mai ad avere la meglio sebbene assestasse più colpi del suo rivale. Fu così che iniziò a giocare con i liquidi, con quello che trovava in giro. Iniziò a studiare l’effetto dei veleni di piccoli animali quali serpenti, ragni e scorpioni sui tessuti di piccoli roditori. Imparò a suddividere i tipi di veleni naturali, a mescerli e studiarne anche i relativi rimedi.

Iura Rashad
Passò il tempo, anni, probabilmente, la sua destrezza nei furti in abitazioni di grandi mercanti era ormai riconosciuta in tutta la periferia. Bastava aprire una finestra, iniettare nel collo dei derubati una minima dose dei suoi veleni e al loro risveglio i preziosi erano magicamente svaniti. Volatilizzati. gli dicevano. gli dicevano. Per cui, prese una decisione. Raccolse i suoi averi, convertì il suo bottino in poche monete di platino e s’incamminò verso la Capitale, Athkatla. Sulla via s’imbatté sulla Traversa delle Fumerie. Con fare malinconico, si avvicinò alla “Arti Alchemiche”, era giorno, le tende tirate e il locale ancora chiuso. una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare, si voltò con fare felino e mise a fuoco in un frangente di secondo la figura della donna. Era ancora bella, sebbene qualche ruga solcasse il suo volto, gli sorrise con le sue labbra carnose, decorate di un rossetto scuro. Come al solito quando era in presenza di lei, Aadil rimase senza parole. Ci provò a parlare, sia chiaro, ma non ce la fece. Lei scoppiò in una risata argentina disse concluse, puntandogli un dito sul petto, all’altezza del cuore. Con sorpresa Aadil percepì una pressione innaturale, spropositata rispetto all’apparente forza che dava l’impressione di avere la donna. esordì, per la prima volta con lei, Aadil. rispose con un dolce sorriso la donna . Aadil scoppiò in lacrime mute. La donna gli pose una mano sulla gota e gli chiese . rispose . Una leggera lacrima sfiorò il bel viso di lei. sussurrò la donna, baciandolo prima di sparire dietro l’angolo.

La Capitale e Lo Scorpione
Aadil raggiunse la capitale Athkatla ripercorrendo il Fiume Esmel che collegava l’omonimo lago al delta che sfocia nel Mare della Spada. L’impatto con la metropoli fu forte. Ma durante questi vent’anni Aadil divenne sufficientemente forte da reagire a cotanta grandezza. Forzieri tracimanti, pellegrini boccaloni e borselli rigonfi di monete lo attendevano. Non passò molto tempo che iniziò a farsi riconoscere per la sua destrezza. La città era enorme, i soldi talmente tanti che sembrava non finissero mai. Iniziarono a chiamarlo “Lo Scorpione”, per la sua attitudine ad arrampicarsi sui muri e narcotizzare le sue vittime prima di derubarle. I successi resero Aadil sicuro di sé. Troppo. Dopo aver messo su un piccolo gruppetto di uomini, decise di organizzare un colpo ad una delle più grandi Fumerie di Athkatla: L’Oro Amaro. Erano centri nevralgici dello smistamento di oppio, la merce più pregiata in questa cultura, dominati dalle grandi reti criminali che si rivaleggiavano nell’ombra per il dominio delle Fumerie. In città, le maggiori Fumerie erano protette da guardie armate e all’interno possedevano una camera blindata in cui veniva custodito l’incasso e la riserva d’oppio ed altre droghe. Un singolo furto ad una di quelle camere avrebbe potuto sistemare dieci uomini per dieci generazioni. Tuttavia, un motivo per cui queste casseforti erano sicure, c’era. Ma ad Aadil, sembrava non importare. Lui era Lo Scorpione.

La notte dominava incontrastata sulla Capitale. Nove ombre nella notte scivolavano sui tetti, mescolandosi al fumo dei comignoli accesi o le bocche di sfogo di acciaierie o fumerie che costellavano il teatro urbano. L’insegna dell’Oro Amaro troneggiava sul quartiere. Le ombre fluttuarono da un tetto all’altro fino a raggiungere il loro obiettivo. La maschera argentata dello Scorpione fu solcata da un bagliore lunare prima di ripiombare nell’ombra. Gli occhi verdi del ladro emisero un lampo smeraldino di avidità e boria. Un gesto della mano, secco e impercettibile, precedette la dipartita delle otto ombre che lo seguivano. Sincronizzati, come note di una sinfonia perfetta, discesero lungo le pareti finemente impreziosite da statue e intarsi inneggianti la cultura dell’oppio. Giunti al limitare della zona d’ombra contrastante con le luci della via, a diversi metri dal suolo, le sei figure svanirono all’interno della struttura. Lo Scorpione, con un ultimo sguardo a Selune che veniva coperta da una nube passeggera, svanì in un muto attimo. L’interno della Fumeria era bene arredato. L’attico in cui si trovava era probabilmente la Suite, al momento ancora vuota. Esplorò i muri, ricoperti da una elegante tintura porpora ed adornati da arabeschi d’oro zecchino sul soffitto. Una lama di luce irruppe nel buio. La porta si spalancò e la figura dello Scorpione sembrò svanire a contatto con l’illuminazione che proveniva dal corridoio. Un vecchio grassone irruppe nella stanza, tenendo tra le mani una pipa maleodorante mentre nell’altra presa grassa una ragazza per metà già denudata. Il vecchio la gettò di peso sul letto e con feroce ardore le salì sopra, schiacciandola col suo peso. Tra le grida di disgusto e dolore, la ragazza dallo sguardo celeste portò gli occhi al soffitto, sul quale intravide un bagliore argenteo e poi più nulla. Un rivolo di sangue caldo stillò da entrambi i corpi. Sia il vecchio che la malcapitata sotto di lui, furono trafitti da una lunga punta di stocco, piantata in verticale dietro la nuca dell’uomo attaversandola così come, pochi centimetri sotto, la testa della femmina. Un bagliore frigido e asettico guizzò dietro la maschera che estrasse poi la sua arma, ripulendola sui vestiti dei due prima di rifoderarla. La porta si richiuse, calando l’ombra sulla grottesca scultura di morte. La figura dello Scorpione con precisione annichilì le fiammelle che illuminavano il corridoio. Procedendo adeso al muro, circospetto, giunse alle scale. Con balzi silenziosi raggiunse i piani inferiori. A giudicare dall’odore sempre più penetrante di fumo era vicino alla sala comune della fumera. Dei pesanti passi lo fecero scattare in una rientranza della parete che ospitava una finestra. La aprì e si dileguò lungo il corridoio, senza uscire dallo stabile. Sentì una voce bonfonchiare qualcosa sulle finestre aperte, gli avrebbe permesso di guadagnare qualche secondo prezioso per la fuga. Vide il pelleverde passare sotto di lui, assicuratosi ad una trave a testa in giù. L’energumeno era oltre che simile ad un grosso orso ma verde, armato fino ai denti. Un rumore di cedimento di un’asse, improvviso, che proveniva da una stanza vicina, allertò la creatura che senza indugi aprì la porta con violenza e con un ruggito si gettò all’interno della stanza. Pochi secondi e il sangue freddo dello Scorpione ebbero un cedimento quando vide una figura esile avvolta di nero schiantarsi contro il muro del corridoio sulla parete opposta alla porta aperta. In una frazione di secondo il mezzorco gli era addosso, con le sue grandi mani artigliate avvinghiate al suo collo, pronto a spezzarlo ringhiò la bestia. Lo Scorpione lasciò la presa della trave, la gravità fece il suo corso, con un colpo di reni si capovolse, atterrando sulle punte dei suoi piedi leggeri, un tonfo impercettibile alle spalle del pelleverde. La mancina afferrò il pugnale dalla cintola sul petto, mentre estraeva la sottile lama, il pollice della mano destra era già intinto di una sostanza nerastra. Con un gesto fluido, perfetto, frutto di migliaia di ripetizioni che lo resero automatico nel corso degli anni, il polpastrello del primo dito della mano destra sfiorò il filo della lama impugnata nella mano sinistra che già stava percorrendo la traiettoria precisa verso la base del collo dello zannuto. Questione di un istante. Come la preda perisce ancor prima che l’artropode abbia ritratto il suo pungiglione ricurvo, il mezzorco stramazzò al suolo ancor prima che lo Scorpione potesse battere ciglio dietro la sua maschera argentata. Uno scambio di sguardi silenzioso, i due presero per le caviglie il bestione e ne occultarono il cadavere sotto il letto a baldacchino della stanza buia. Poi, due micidiali fendenti all’addome di uno dei due. La maschera argentea dello Scorpione riverbera di sangue scarlatto stillato dal corpo del suo ex compare. Non servono i pesi morti in quest’operazione. Dopo pochi minuti, otto ombre si ritrovarono inannzi alla porta blindata, evitando di calpestare le pozze di sangue lasciate dai cadaveri delle guardie. A separarli dalla ricchezza di una vita, 30 cm di metallo fuso in un blocco unico. Al gesto secco della mano dello Scorpione, tre di loro presero posto all’ingresso della stanza in cui si trovavano pronti a fronteggiare eventuali rinforzi di sicurezza. Gli altri quattro, due muniti di alcune sostanze alchemiche e due di trapani a manovella e attrezzi da scasso, aggredirono il muro accanto la porta di spesso metallo, invalicabile. Tuttavia, l’approccio degli scassinatori è quello di aggirare il problema, passando dal muro, rinforzato solo da una piastra di metallo spessa 2 centimetri. Dopo aver perforato il primo strato di pietra dura e calce, corrosero il metallo con poche boccette di acido, terminando con il rimuovere il secondo rinforzo di pietra. I quattro entrarono, seguiti dallo Scorpione. Innanzi a loro si stagliavano intere batterie di forzieri che, aprendoli con poche manovre, risultarono pieni di danaro. Nessun moto di gioia pervade i cinque. La parte dura inizia ora. Le monete cominciarono a fluire nella borsa conservante appositamente comprata. A rompere la frenesia dell’operazione le urla dei tre compagni rimasti di guardia, simili a porci sgozzati. Si voltarono tutti e cinque verso il buco da loro provocato, una figura nera coprì l’apertura ma lo Scorpione, con lancio preciso, conficcò nel corpo due pugnali avvelenati, facendolo stramazzare al suolo. Solo allora una boccetta sferica fluttuò, lanciata, attraverso l’apertura. Lo Scorpione balzò in avanti per afferrarla in tempo prima che si rompesse ma non appena la ghermì un coltello avvelenato si piantò nella sua schiena, volta solo ai suoi presunti compagni. Fece solo in tempo a schiantarsi a terra prima che l’effetto combinato della miscela di gas e del veleno paralizzante agissero sulle sue membra. Buio.

Gli Zentharim
Il risveglio fu traumatico. Per la seconda volta nella sua vita, Aadil si risvegliò in un luogo a lui sconosciuto. A differenza di quando era bambino, però, ora si polsi che mani erano saldamente legati a manette di metallo munite di spine al loro interno. Ogni movimento era un dolore straziante ai polsi. Rimase immobile, per ore. Le perdita di sangue cominciò a rivelarsi cospicua e le sue membra, intorpidite dall’immobilità diventavano sempre più cedevoli, come le palpebre più pesanti. Una spirale di incubi lo attanagliò nel sonno. Le catene oniriche vennero spezzate soltanto quando lo stridio del chiavistello della sua cella scattò. chiese una voce nasale e grottesca. La penombra celava il volto dell’uomo che continuò ad avanzare. furono queste le parole prima che uno stiletto s’insinuasse al di sotto dell’ultima costola di Aadil. Dalle sue labbra inaridite fuoriuscì un mugolio debole, privo di forze e volontà. sibilò la voce. Alle sue spalle sopraggiunse una seconda figura, ben più grande ed incappucciata. Le torture proseguirono per giorni e giorni. Aadil smise di contarli. I polsi e le caviglie dilaniati dalle manette uncinate, il corpo deturpato dalle fini tecniche di tortura applicate su di lui. Gli occhi perennemente chiusi, le labbra spaccate dalla sete, giunture di spalle e bacino dislocate. Nuovamente la vita era prossima lasciare il corpo dell’uomo.
una voce calda, femminile, lo risvegliò dal suo incubo che, dopo aver aperto gli occhi, sembrò non finire lì. Gli occhi troppo stanchi non riuscirono a mettere a fuoco. un sussulto nelle membra del giovane si propagò a sentire il suo nome. una risata argentina seguì queste parole ed attivò la memoria del ragazzo che con sforzo immane fiatò . Buio.
la voce di Iura lo destò di nuovo. Stavolta era steso su un giaciglio rialzato di pietra. Le bende solcavano il suo corpo. continuò la donna Aadil non parlava. Come al solito, ascoltava. . Tutte queste cose erano quasi oscure ad Aadil, nomi che aveva sentito soltanto nominare qualche volta in qualche Fumeria o bettola.

Cardia Antares
L’indomani il corpo del giovane era sufficientemente ristorato da poter camminare con l’ausilio di un bastone ch’egli rifiutò. Trascinandosi seguì il messo vestito di nero che lungo un dedalo di corridoi privi di finestre ed illuminati da sole candele o lampade ad olio. Dovevano trovarsi sotto diversi metri dalla superficie. Il tragitto culminò innanzi ad una pesante porta sorvegliata da due energumeni rivestiti di nero metallo. Le porte si schiusero ed Aadil si trascinò all’interno della sala a denti stretti. Su di lui si posarono diversi sguardi, alcuni di scherno, altri di indifferenza. domandò un uomo dal volto pallido e incavato la risata roca venne rotta da qualche colpo di tosse. L’uomo fece qualche passo verso di lui, sollevò la punta del suo bastone e la pigiò sulle bende che fasciavano la spalla di Aadil. Un mugolio a denti stretti accompagnò un’occhiata di odio nei confronti dell’emissario. fece con fare sospeso l’uomo dotato di bastone inalò aria dopodiché, voltandogli le spalle, disse . l’emissario si voltò verso di lui con un ghigno malefico, schioccò le dita e due uomini lo bloccarono mentre un terzo gli si avvicinò con un ago ardente in mano. sussurrò con sdegno mentre gli veniva inciso a fuoco sul pettorale sinistro uno scorpione stilizzato. gli domandò l’emissario. Una pausa di silenzio, gli occhi su di lui, vagamente incuriositi. rispose Aadil. commentò l’uomo .

NOTE:
-Iura, il nome della donna che salvò la vita ad Aadil, deriva da Iuroidea , un genere appartenente al clade degli Scorpiones (scorpioni).
-I nove individui del furto rappresentano le otto zampe dello scorpione + il suo pungiglione.
-Cardia, il nuovo nome di Aadil è il cavaliere d’oro dello scorpione nella serie Lost Canvas.
-Antares è la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione.

SCHEDA:
Nome originale: Aadil Rashad.
Nome dopo l’ingresso nella Rete Nera: Cardia Antares.

Aspetto: Adulto di giovane età. Altezza nella media, fisico asciutto e nervoso. Capelli neri mossi. Occhi verde acqua.
CAR: FOR 12; DES 18; COS 14; INT 16; SAG 14; CAR 13.
Classe: Ladro con archetipo Avvelenatore* (Guida del giocatore, Pathfinder)
Lvl: 8

Abilità: Acrobazia (15); Artigianato – Alchimia (14); Artista della Fuga (9); Cammuffare (6); Conoscenze – Dungeon, Geografia, Ingegneria, Locali, Religioni (4); Diplomazia (9); Disattivare Congegni (12); Furtività (15); Intimidire (12); Intuizione (12); Linguistica (8); Percezione (13); Raggirare (12); Rapidità di mano (12); Sapienza Magica (5); Utilizzare Congegni Magici (9); Valutare (11).
Capacità: Competenza in Armi e Armature; Attacco (n.livello/2 (=4) d6 per ogni attacco furtivo o al fianco); Uso dei veleni* (non si avvelena se fallisce l’uso di un veleno); Avvelenatore esperto*(prova di alchimia per cambiare tipo di veleno (contatto, ingestione, ferimento); Eludere (anziché dimezzar non subisce danni se supera CD Riflessi); Schivare Prodigioso e S.P. Migliorato (non perde Des alla CA se colto di sprovvista e non può essere fiancheggiato); Doti da ladro (n.livello/2) (=4)).

Doti da ladro: Espediente (talento bonus); Accuratezza (arma accurata: usa Des anziché For per txc di armi leggere); Attacco Sanguinante (+1 danno da sanguinamento x ogni furtivo (=+4 danni sanguinamento ad attacco)); Veleno Rapido (applicare veleno occupa solo azione di movimento anziché round intero).
Talenti: Colpo vitale (raddoppia dado danno al txc con risultato più alto); Combattere con 2 armi (-4 txc prima mano, -4 txc seconda mano); Comb. con 2 armi Migliorato (secondo attacco a seconda mano); Doppio taglio (bonus For al danno della seconda mano è pieno e non dimezzato); Difendere con 2 Armi (se impugna 2 armi +1 CA); Arma accurata (vedi sopra); Estrazione rapida (estrazione azine gratuita, vale anche per armi da lancio).

NOTE: Se arma in mano secondaria è leggera il malus di Comb con 2 armi decresce di 2 per entrambe le mani. (pg 207).
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21/09/2016 07:03

CASI:

Raegar dello spadone infuocato


Il vento della più potente tempesta che da decenni si abbatteva su quelle terre martoriava gli alti pini dagli aghi congelati. Neppure gli anziani ricordavano una simile furia, ed anche se era inverno inoltrato il cielo plumbeo veniva continuamente squarciato da lampi ramificati. Il rumore dei tuoni poi, era indescrivibile …. un susseguirsi di boati intervallati dagli alberi schiantati dai fulmini tanto che risultava difficile anche solo udirsi al suolo per uomini distanti più della lunghezza di una spada.
E proprio in quella sera, mentre il possente Dio Talos abbatteva sulla terra la sua furia più nera, vidi la luce per la prima volta. Io Raegar ,dagli occhi e capelli neri come l’ossidiana, figlio del capoclan delle ‘lame delle praterie’. Essendo il quarto figlio non avevo diritto a portare il nome di mio padre, onore che spettava solo al primogenito,ma il mio nome ha comunque una storia. Appena vista la luce fui raccolto indifferentemente dalle gambe di mia madre Ingrid da mio padre per la consueta esibizione e presentazione al clan, ed in quella notte battuta dalla tempesta fu proprio il Dio Talos a conferirmi il nome. Nel momento in cui fui sollevato davanti agli occhi del clan battuto dalla pioggia, il più potente fulmine di tutta la tempesta si abbatté su un abete poco distante e lo divise a metà incendiandolo. Parte dell’albero cadde quasi a colpire i presenti e centrò in pieno una rastrelliera a cui erano poggiate le armi avvolgendo un grosso spadone, l’unico per il grande peso a rimanere in piedi conficcato nel terreno, col caldo tocco delle fiamme. Fu interpretato da tutti come un segno … anche se non tutti erano d’accordo nel sostenere che fosse un buon presagio, e me ne venne dato il nome. Diventai grande in fretta, nel mio popolo nessuno ha diritto a vivere l’infanzia dei figli deboli degli altri umani. Ero alto e possente più di molti della mia età. I continui spostamenti del nostro popolo nomade soggetti ai contratti e le battaglie che talvolta si accettava di combattere per racimolare denaro mi fecero conoscere molto delle terre del nord, su come sopravvivere, su come conquistare ciò che deve essere nostro. Tutti i giovani venivano addestrati fin da quando riuscivamo a sollevare la nostra prima spada. I guerrieri per apprendere non mancavano mai ed anche se mio padre si dedicava solo al fottuto primogenito come è tradizione, mia madre non mancò mai di farmi avere le giuste attenzioni ed i giusti insegnamenti per sopravvivere. Mi insegnò a leggere e scrivere alla buona, diceva che molti individui che avrei incontrato avrebbero potuto farmi del male con delle semplici parole scritte su carta e quindi dovevo sapere se tentavano di fregarmi …..per poi fare ciò per cui sarei stato addestrato …. Ucciderli tutti. Giurai a me stesso che per ciò che fece per me l’avrei ripagata per tutta la vita e nessuno, uomo, demone o Dio che fosse, le avrebbe potuto mancare di rispetto in mia presenza.
Fu nella mia dodicesima estate che un guerriero solitario proveniente da un'altra tribù si unì al nostro clan per un certo periodo. Costui era Olafson, e fu lui più di chiunque altro a fare di me un grande guerriero. Olafson era enorme, senza capelli e con una barba bionda immensa avvolta in tre trecce che scendevano sotto al mento. Nella sua tribù era usanza quando un guerriero veniva sconfitto recidere la barba per far si che l’umiliazione fosse visibile a tutti. La sua non era mai stata accorciata!
Maneggiava uno spadone dall’elsa in acciaio modellata a forma di testa di lupo. L’impugnatura era avvolta da strisce di pelle nera consunta e la lama era nera, lucente e immensa, … assolutamente letale. Costui mi prese in simpatia, sembrava vedere in me qualcosa che neanche io riuscivo a vedere e osservando i miei allenamenti iniziò a istruirmi sulle migliori mosse in determinate occasioni, su come schivare i colpi, sbilanciare l’avversario, sul mantenere l’equilibrio anche ingombrato dall’armatura , sul rinforzare le mie braccia e le mie gambe. Mi obbligò a tenere sollevato lo spadone per ore ed ore ed arrivata sera quando lo volevo posare estraeva delle cinghie di pelle e mi legava le mani all’elsa. Disse ‘dovrai muoverti senza distruggere nulla in giro per il villaggio, dovrai imparare a fare tutto mantenendo lo spadone sempre pronto, dovrai far si che diventi parte di te come un prolungamento del tuo braccio.’
Olafson non mi disse mai in quel periodo come si guadagnava da vivere , mi sembrava di aver capito che accettasse delle missioni pericolose ma non mi spiegò di che genere. Passarono le stagioni e il momento in cui Olafson doveva ripartire per le sue missioni si avvicinava,ed ero sempre più nervoso. Avevo appena compiuto 13 anni e fu quello il momento che più di tutto segnò la mia vita …. avevo visto morire tante persone , ma ancora non per mano mia. Era una calda giornata, per quello che possono essere calde le giornate del nord, e in una pausa io e gli altri ragazzi ci sfidavamo … le sfide erano semplici competizioni per dimostrare di essere i migliori, i più forti e chi perdeva non lo accettava mai e si finiva sempre a darsele di brutto tutti quanti … la normalità insomma. Ma quel giorno Freyr figlio di Thorin fece un errore, il suo ultimo errore …. perse la sfida contro il mio braccio, poi perse l’onore pronunciando le parole ‘vado a farmi quella prostituta che ti ha messo al mondo ’ , infine perse la vita …. i miei muscoli reagirono all’unisono, scattai verso di lui e coprii la distanza che ci separava ad una velocità mai più raggiunta. Vidi Olafson lontano, troppo lontano, che correva verso di noi … vidi le mie mani che si stringevano attorno al collo di Freyr, sentii una forza scaturirmi da dentro ed invadermi l’anima, sentii che non era sufficiente gonfiargli la faccia di pugni, sentii la necessità di rivalsa. I neri tentacoli della vendetta si diramarono dentro di me fino ad invadermi le braccia con la rabbia che cresceva da dentro … . Non fu l’ultima volta che conobbi quella rabbia, ma fu la prima che mi colpì a quel modo! I muscoli delle mani rinforzati dagli allenamenti si gonfiarono, le vene si ingrossarono fino a vedersi perfettamente sul dorso delle mani, ed un urlo di profonda ira scaturì dalla mia gola sulla sua faccia. Vidi gli occhi di Freyr spalancati ed iniettati di sangue, rosso in viso e con lo sguardo della paura…(pensavo avesse paura perché sapeva ciò che volevo fargli, ma no, non era per quello; aveva paura perché lui poteva vedermi in faccia in quel momento) e con l’ultima stretta, giusto un attimo prima che le mani di Olafson mi fermassero, sentii la sua gola cedere ed esplodere all’interno. Un fiume di sangue scaturì dalla sua gola sui miei vestiti tingendoli di rosso. Avevo ucciso Freyr figlio di Thorin …. Avevo appena decretato la mia morte.
Come previsto Thorin chiese la mia testa, gli avevo ammazzato il suo primogenito, per di più umiliandolo perché non avevo usato armi per farlo, aveva perso perché era inferiore e lui lo sapeva. Mio padre, l’unico che poteva opporsi per salvarmi la vita si limitò a girare la testa e decretò la mia fine. Era già successo in passato, alcuni tentavano la fuga ma alla fine morivano tutti; io non sarei scappato, sarei morto con onore difendendomi con la spada.
Il fuoco bruciava e illuminava la radura, niente vento quella sera, niente luna, solo una debole pioggia che mi bagnava la faccia. Le gocce scendevano a rigarmi il volto ma non le sentivo ero concentrato. Thorin era un guerriero di 40 anni circa, era forte. Aveva braccia mostruose come tutti quelli che costruiscono lame e usano il martello nella fornace. Era stato il braccio destro di mio padre nelle battaglie contro i clan Orcheschi della valle ed uno dei pochi a non perdere neanche un arto in tutti gli anni di combattimenti. Non era più veloce come un tempo ma aveva la tecnica e l’esperienza dalla sua parte. Lui combatteva in maniera diversa dagli altri del mio popolo, usava un grande scudo quadrato scolpito in un unico pezzo da un enorme tronco di solida quercia, rivestito di pelli, ed una spada lunga la cui punta aveva trapassato innumerevoli cuori. Appoggiai la punta del mio spadone sul terreno e guardai il cielo, Olafson mi aveva sconsigliato quell’arma, il mio avversario maneggiava un arma più leggera e quindi più veloce e ancora non sapevo maneggiarla con la dovuta esperienza, ma la scelsi perché era l’unica con cui potevo sperare di colpirlo, l’unica abbastanza lunga da permettermi di arrivare alla sua gola. Speravo in un passo falso che non sapevo se si sarebbe mai verificato. Mi guardò e vidi l’odio dei suoi occhi … lo stesso che avevo provato per suo figlio in quel pomeriggio. Cercai tra la folla Olafson, forse per un cenno d’incoraggiamento, ma non lo trovai, non era voluto venire a vedermi, forse già mi aveva dato per spacciato e non voleva vedere la mia morte….. Al segnale Thorin partì di corsa, con una velocità che non sospettavo neanche dopo tutta la birra che aveva ingoiato nel pomeriggio e mi fu subito addosso. Mulinava la spada con fendenti da tutte le parti, si vedeva perfettamente che sapeva quello che faceva. Dovetti indietreggiare e parare i colpi meglio che potevo, il mio spadone era pesante e meno mobile, sapevo che dovevo attendere il momento in cui si sarebbe scoperto,…. Se mai l’avesse fatto. Un fendente da destra si abbatté sulla mia lama ma senza forza, capii in ritardo che era una finta e che già stava girando la sua spada per colpirmi dalla parte opposta. Mi girai ma non abbastanza veloce e un taglio profondo si aprì sulla mia spalla. Giravo in tondo e lui colpiva e io paravo. Sollevai lo spadone per colpire da destra ma quel maledetto scudo assorbi completamente il colpo e per un pelo non mi trapassò con la spada che schivai all’ultimo muovendomi di lato. Allora Thorin si fermò un secondo per dirmi parole che non dimenticai, sapeva che erano le ultime che avrei sentito perché aveva in mente qualcosa. Disse :’ stupido ragazzo, la spada non è il solo mezzo per vincere’…. Detto questo caricò come prima sollevando il braccio, io mi apprestai a parare la sua spada come avevo fatto fino ad allora ma all’ultimo Thorin non mosse il braccio armato che aspettavo ma mi colpì con lo scudo scaraventandomi a terra. Picchiai al suolo con un tonfo sordo, sentii la testa battere sul terreno con violenza tanto da vedere sfuocato per alcuni momenti, sentii il rumore metallico del mio spadone che scivolava via dalla mia presa, lontano dal mio braccio. Risuonò la risata sua e dei suoi sostenitori dall’altra parte della radura e lo vidi avvicinarsi a me con quello sguardo che vedevo sfuocato per la botta ma che sapevo esserci. Vidi la sua figura torreggiare su di me al suolo, vidi la mia morte venirmi incontro … e sperai solo di non avere la faccia di merda che aveva suo figlio nel momento in cui stava per morire. La sua lama si alzò fino al punto più alto che la spalla di Thorin poteva raggiungere, caricava la forza per l’affondo, e affondò nella mia spalla! Il dolore mi invase, il sangue colò copioso e non potei soffocare un urlo di dolore, ma non mi aveva colpito al cuore … perché non mi aveva finito? … quel maledetto bastardo voleva farmi soffrire? Si doveva essere così ….. ma la sua spada non si moveva e la mia vista stava lentamente tornando a fuoco e allora vidi …. vidi il motivo per cui aveva mancato il mio cuore … vidi che dalla sua pancia sporgeva uno spadone da cui colava sangue caldo misto alla pioggia …. Vidi uno spadone dall’elsa d’acciaio lucente e una lama nera che spariva dentro alle viscere di Thorin …. Vidi delle mani coperte da guanti neri e sopra di me una testa coperta da un nero cappuccio. Olafson era scivolato col favore del buio nel punto più lontano dagli altri osservatori e quando aveva visto che altra via oltre la morte non era più possibile era intervenuto. Io non glielo avevo chiesto ma lui era intervenuto … Estrasse lo spadone dal corpo oramai senza vita di Thorin e mi caricò sulle spalle come non pesassi nulla. Ancora stordito dal colpo alla testa e dalla ferita non riuscii neanche ad oppormi e cominciò a correre giù dal pendio nascosto dagli alberi e dall’assenza della luna. Percorse forse un chilometro mi depose davanti ad un'altra figura nascosta da un mantello con cappuccio fatto di pelli di lupo. Tolto il cappuccio vidi una cascata di neri capelli e gli occhi di Ingrid, mia madre che mi sorridevano. Si tolse il mantello e me lo mise sulle spalle, adocchiò la mia ferita e sorrise di nuovo dicendo: “non è nulla non preoccuparti, sopravvivrai ; Ho chiesto a Olafson di salvarti se le cose si fossero messe male, non potevo permettere che uno dei miei figli fosse ucciso da quella famiglia di sporchi maiali imbrattati di cenere della forgia. Tu porti nelle tue vene il mio sangue, un sangue che proviene da generazioni di grandi guerrieri, che le leggende dicono risalire a Talos stesso; e a te sarà riservato il compiersi di grandi imprese, ne sono più che sicura. Porterai sempre con te questo mio mantello, è una parte di me, e anche questo”…. E da dietro la schiena si tolse un rotolo di pelli, le srotolò in un colpo deciso ed al centro vidi un grande spadone, quasi il doppio in peso e misura rispetto a quelli che avevo sempre usato. L’elsa a testa di lupo ma con le fauci socchiuse in un ringhio e non spalancate come in quella di Olafson. La lama di acciaio lucente, affilata in maniera che le parole non possono descrivere e risplendente quasi di una luce propria, una luce elettrica, quasi magica ai miei occhi. “sarà lo stesso Talos” continuò mia madre” a proteggerti con le sue folgori e a Castigare chi ti si opporrà. Olafson ti insegnerà ad usarla quando sarai abbastanza grande da poterla maneggiare, fino ad allora rimani con lui e apprendi quanto più possibile. Un giorno ci rivedremo figlio mio.” mi baciò la fronte. Disse a Olafson che avrebbe confuso le nostre tracce per rallentare i guerrieri che mio padre sarebbe stato obbligato ad inviare secondo le nostre leggi per completare la sentenza ingiustamente interrotta e scappò via tra gli alberi.
Olafson mi ricaricò e riprese il cammino speditamente per ore.
Mi depose sotto uno sperone di roccia ed accese un fuoco e disse :” mi sono veramente rotto le palle di scappare, ecco la prima lezione ragazzo, NON SI VIVE BENE CON IL NEMICO ATTACCATO AL CULO, si posizionò e aspettò pochi minuti l’uscita dalla boscaglia di quattro guerrieri … i fottuti fratelli di Thorin si erano offerti sicuramente volontari per strapparmi la pelle dal corpo a me e a chi mi aveva aiutato.
Provai a Sollevare lo spadone che mi aveva portato mia madre ma era troppo pesante per le mie braccia ferite, non sarei stato di grande aiuto ma a Olafson non sembrava importare … non capivo da cosa provenisse tutta quella sicurezza, avevamo davanti 4 guerrieri esperti e nel pieno delle forze. Poi compresi da cosa proveniva quella sicurezza; Olafson aveva pianificato tutto, non aveva lasciato niente al caso. La sua posizione di partenza, la posizione dei suoi avversari, la posizione del fuoco e la mia, sapeva come sfruttare la posizione delle rocce al limite degli alberi e come usare la parete rocciosa alle nostre spalle. Sapeva che l’ira e l’odio e la sicurezza del numero avrebbero reso avventati i suoi nemici. Quando il primo dei fratelli partì in carica prima degli altri fu il primo errore che stava aspettando, fece roteare lo spadone nero con una mano sola da destra verso sinistra in un unico movimento circolare e la gola del malcapitato venne strappata via facendolo accasciare ai miei piedi morente. Non aspettò il movimento degli altri e continuando il movimento circolare girò su sé stesso abbattendo la lama tra la testa e la clavicola del secondo fratello. Gli altri due rimasero sbigottiti ma non per molto. Si avvicinarono cautamente da due direzioni opposte ma Olafson raccolse un legno infuocato dalla brace e lo scagliò in faccia all’avversario alla sua sinistra e parò con lo spadone alla sua destra confrontando la rispettiva forza con quella dell’avversario. Dire che lo scaraventò a terra fu poco, gli sentii le ossa scricchiolare e subito affondò la lama nel suo petto. L’ultimo rimasto che si stava ancora sfregando la faccia bruciacchiata si sforzò di aprire gli occhi annebbiati. Olafson disse rivolto a me :” seconda lezione ragazzo NON ESISTE UN METODO GIUSTO PER LA VITTORIA, SOLO LA VITTORIA” e fece roteare lo spadone con la punta verso il terreno fino a che non lo toccò e una manciata di terriccio finì in faccia all’ultimo fratello accecandolo di nuovo e continuando il movimento gli conficco la lama tra le gambe …. mai udii un urlo del genere. Lo fece mettere in ginocchio davanti a noi e mi disse :”terza lezione ragazzo, QUANDO TI ATTACCANO IN 4 CONTRO 1 E TU VINCI POI LI PUOI UMILIARE,finisci questa merda”. Sollevai lo spadone fino ad avere la punta a contatto col suo cuore e mandai tanti saluti agli uomini adulti della famiglia di Thorin affondando senza pietà. Un fiotto di sangue uscì all’entrata della lama e scosse elettriche scaturite dalla lama finirono l’ultimo idiota.
Da quel giorno viaggiai con Olafson in lungo e in largo , imparai la sua professione di mercenario, non molto ben vista dalle nostre popolazioni che preferivano vivere ‘ in branco’ , appresi tutto quello che dovevo del combattimento, fronteggiai avversari sempre più difficili per affinare le mie capacità e di tutte le razze. Mi insegnò riguardo l’esistenza della magia e di persone che sapevano plasmarla a loro piacimento. Mi insegnò ad usare la testa nel combattimento quando possibile e quando invece era giusto abbandonarsi alla rabbia che scorreva nelle nostre membra. Combattemmo da soli, talvolta in gruppo e pure al soldo con un esercito una volta. Quando avevamo un avversario davanti o anche più di uno che Olafson giudicava alla mia portata si sedeva e mi lasciava combattere da solo. Anche se avessi perso non sarebbe più intervenuto per aiutarmi ma a quanto pare o lui sapeva giudicare bene o io ero diventato sempre più forte perché sono ancora vivo.
Le nostre strade si separarono quando il vecchio Olafson si ritirò e con i risparmi accumulati aprì un rudere di locanda. A me faceva schifo con tutti quei lavori da fare ma lui sorrideva, sembrava felice. Aveva compiuto il suo compito, mi aveva addestrato e mantenuto in vita ed ora ero pronto a sopravvivere da solo. Adesso ho 25 anni e dopo qualche altra bella scorreria e qualche altra missioncina per i signori locali mi dirigerò nelle città più a sud, ho sentito che cercavano un boia da quelle parti….. magari mi riposerò con qualche baldracca, tanta birra e staccando qualche testa.
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