Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

La Corte
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Ultimo Aggiornamento: 27/09/2016 08:29
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Età: 41
Sesso: Maschile
26/09/2016 08:26

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Ecco il mio bg!!!

La Cacciatrice

La foresta, si sa, non è un posto in cui crescere una bambina.

Quella notte la luna era celata da una fitta coltre di nubi. Tra le fronde delle grandi conifere si udiva il vento gelido sussurrare paura e presagi di morte agli incauti avventori della foresta. I monti, che circondavano la valle, graffiavano il cielo e squarciavano le nubi grigie che ottenebravano il cielo stellato. Ai piedi del monte Senmoril, detto anche ‘Il Valico’, una piccola luce calda filtrava dai lucernari della casa di Eldoran Backboar, il taglialegna. Nelle prossimità di quella casa, i rumori della foresta si facevano fiochi, sovrastati dalle grida di travaglio della donna. L’uomo poggiava il suo grande peso sulla trave della porta, unico accesso alla parete che separava i giacigli dal resto della casa. I suoi occhi grigi, un tempo verdi come le distese da cui traeva sostentamento, fissavano con apprensione la donna, la sua donna, accudita dalle due levatrici del villaggio più vicino. Il parto doveva essere semplice, era il quinto figlio, ma Eldoran si sentiva irrequieto comunque. Il tempo passava, il taglialegna sbuffava. Una donna, spazientita dai grugniti del padre, gli chiuse la tendina in faccia. L’uomo non disse nulla, prese un po’ di zuppa dal paiolo che ribolliva e si mise al tavolo a mangiare, gettando insistenti sguardi alla porta. Passò un’ora o poco più, quando la notte venne spezzata dallo stridulo vagito dell’ultima nata. Eldoran sussultò e si precipitò al di là della parete. Una donna teneva in braccio la piccola creatura strillante, l’altra si muoveva frenetica sul corpo della madre.
Eldoran Backboar era un semplice taglialegna, ma non era stupido, si precipitò verso il corpo disteso della moglie, incurante della creatura.
Quella notte, una vita venne data in pegno per una vita. La foresta dà, la foresta toglie.

In una foresta centenaria otto anni sono pochi. In una foresta un singolo albero non conta nulla.
La mattinata era umida ed un pallido sole si faceva largo tra le fronde spinose degli abeti e dei larici. Nonostante fosse piena estate, il clima era piovoso e fresco nella Valle di Renthial, un torrentello spontaneo produceva un sottofondo che sovrastava di poco il rumore degli aghi calpestati da un piede leggero e furtivo. Gli occhi verdi della creatura guizzavano da una zona di penombra all’altra, le piccole mani ossute stringevano con straordinaria forza un lungo bastone dalla punta sottile, probabilmente temprata al fuoco.
Un fruscio sospetto attirò l’attenzione della piccola cacciatrice. Piccoli movimenti scostarono gli aghi ed il fogliame caduto a terra. Ancora pochi passi furtivi; il cicaleccio degli insetti sotto la coltre arborea si spense.
Un suono sordo, ovattato, accompagnò l’affondo della piccola assassina; la fuga fu breve. Pochi balzi della preda si interruppero quando la sottile punta trapassò la pelliccia ed il morbido corpo si afflosciò esanime sul letto di foglie. Dopo aver legato per gli arti la sua preda, la bambina si coricò il suo bottino ed intraprese la via di casa. Ai piedi del monte Senmoril, in una piccola radura artificiale, la capanna si ergeva robusta. Sua sorella, Khaila, e suo fratello di un anno più grande di lei, Loren, fasciavano i rami secchi e li disponevano sotto la tettoia di legno e paglia, al riparo dall’inclemente clima dell’Alanai. Non appena la videro, Khaila, la sorella maggiore si diresse verso di lei con passo lungo e deciso. La piccola cacciatrice fece un paio di passi indietro, quasi volesse prenderne le distanze che però non furono sufficienti per evitarsi il manrovescio.
‘Dove sei stata!?’ gridò con voce stridula ‘Ancora a giocare nella foresta?!’
‘Io..!’ la risposta venne interrotta da un altro schiaffo.
‘Io niente!’ strillò Khaila ‘Dovevi aiutarci a fasciare la legna! Avremmo dovuto finire prima dell’arrivo di papà!’
‘Papà non è ancora arrivato!’ replicò la bambina ‘E tu stai perdendo tempo!’ proseguì, rincarando.
Questa volta lo schiaffo non andò a buon segno e la bambina sgattaiolò rapida in casa.
Il focolare già bolliva e per la piccola, scuoiare tre conigli non era un problema. Li fece a pezzi e dopo averli puliti dalle interiora li infilzò mettendoli a cuocere sul fuoco.
Il nitrito del kaltblutigkeit annunciò il rientro di Eldoran e dei due figli maggiori, Sion e Tyron.
Tutti si precipitarono a ridosso del possente cavallo al quale erano assicurati tre grossi tronchi secolari. La stivazione dei tronchi era un momento in cui tutta la famiglia era coinvolta. Un momento in cui i dissapori si appianavano e il legame fraterno si forgiava.

In una foresta i germogli crescono sui vecchi tronchi caduti. In una foresta il nuovo rimpiazza il vecchio.
Il funerale di Eldoran fu intimo e veloce. Nessuno se non i figli, silenzio se non singulti. Il corpo venne deposto ai piedi del vecchio abete che sovrastava la casa. Il nome venne inciso accanto a quello della loro madre. Sion prese il posto di Eldoran, sua moglie Leida il posto della madre che li lasciò prematuramente. La vita continuava. Uguale a ieri, uguale a domani.
La frescura mattutina sfiorava le dita ben strette sulla lunga lancia. I piedi nudi carezzavano il letto di aghi e foglie. Come secondi occhi, trasportavano alla predatrice tremiti, dislivelli, tane.
I capelli neri ed ispidi raccolti a coda le scivolavano tra le scapole. Le nari saggiavano l’aria, avide di odori selvatici. Un grufolio sommesso, al di là del grosso tronco caduto.
Silenzio.
Il respiro diviene profondo. Labbra schiuse eiettano aria calda.
Silenzio.
La pianta del piede saggia il tronco coperto di muschio, vi aderisce, i muscoli della gamba, sottili e nervosi, la issano sul rialzo. Gli occhi verdi come l’oltremare saettano sul grosso suiforme dal pelo irsuto, nero come la pece. Il cicaleccio cala. Gli uccelli, ignari complici, invece, continuano a lanciare richiami d’amore.
Silenzio.
Le dita stringono l’impugnatura della lancia. Le nocche sbiancano alla salda presa di lei. I denti si serrano contratti in uno sforzo di focalizzazione. Gli occhi non mostrano esitazione ma solo calibrazione. Le ginocchia flettono, le caviglie rispondono al contatto col terreno. A mezz’aria, le spalle si contraggono e rilasciano l’arma in tutta la sua lunghezza. La punta in acciaio ignora la fitta peluria, perfora il derma e s’incunea tra i muscoli del collo e quelli della scapola.
Adrenalina pura, per entrambi.
La creatura scatta in avanti ma i movimenti sono limitati. La sua indole che natura ha selezionato per lui lo sprona a voltarsi e fronteggiare il nemico. Zanne gialle, una scheggiata. Schiuma di rabbia per l’affronto. Capo chino. Carica.
La predatrice atterra sul tenero muschio. Calpestio di zoccoli. Estrae la lunga lama ricurva, balzo all’indietro e affondo nel grasso grosso collo. Un gesto collaudato contro le teste calde che non si arrendono al loro destino.
Il secondo colpo è di clemenza, diritto al costato. Di nuovo, silenzio.

In una foresta le fronde si piegano al vento e le foglie si volgono al sole. In una foresta tutto cambia, anche se tutto sembra restare uguale.
Le giornate si fanno lunghe ed i rapporti con la famiglia sempre più lassi. Le battute di caccia durano giorni, settimane.
In una giornata di rigido inverno in cui la neve ha preso il posto della pioggia, la predatrice sente i suoi piedi affondare nella neve farinosa. La lunga pelliccia gettata sulle spalle s’impregna sempre più.
Un lontano calpestio di zoccoli spezza il silenzio ovattato. Le orecchie vigili indirizzano i suoi passi veloci verso quel suono. Sbuffi dalle labbra socchiuse condensano e svaniscono nell’aria secca e fredda.
Dal piccolo promontorio la vista è libera di setacciare la pista battuta. Le mani callose salde sull’arco. Olfatto acuto, vista nitida, udito fino. Più bestia che donna, ormai.
Il calpestio degli zoccoli sul terreno compatto e gelato si fa sempre più vicino. Medio ed indice carezzano la corda di tendini che freme al tocco di lei, come se l’arma stessa avesse un’anima assetata di sangue. Da dietro la macchia di rovi ecco apparire una grossa creatura, lunghe zampe di equino, grossa testa allungata che sbuffa denso fumo gelato, sulla groppa un cavaliere avvolto in una densa pelliccia fulva.
Le dita scatenano la freccia incoccata. Il corpo da predatrice agisce ancor prima che la sua umanità possa riflettere, ponderare, capire. Un colpo diritto al petto del cavallo che lancia un nitrito acuto, rotto dalla sensazione di morte che avvolge la gola della bestia la quale, dopo un’impennata furiosa, stramazza al suolo agonizzante. Il colpo è mortale, la bestia spira in pochi secondi.
Giusto il tempo per realizzare quel che ha fatto. Denti stretti, la predatrice ritorna donna, bestemmia gli dei e scivola lungo il pendio scosceso, in soccorso del caduto. Ansima correndo verso di lui. Scusarsi è inutile, si accinge a prestare soccorso all’uomo. Frattura? Incosciente? Si china su di lui, steso a terra.
L’olezzo dell’uomo è forte, quasi quanto il suo. La pelliccia puzza ancora di animale. Il volto di lui riverso nella neve trasformatasi in fanghiglia. Con un gesto della mano, fa presa sulla spalla di lui per girarlo supino.
Flulgore argenteo. Dolore acuto sul viso di lei. Balza indietro, aiutata dalla sua feralità. L’uomo rotola verso di lei. Impugna una lama corta ricurva. Prova nuovamente ad attaccarla ma questa volta non c’è più la donna a fronteggiarlo, ma la bestia. Con la mancina gli afferra il polso che impugna la lama, lo preme a terra, con la destra, ancora libera, afferra dalla faretra una freccia e gliela conficca nel carpo, trapassandolo da parte a parte, ancorandolo al suolo quel poco che basta per estrarre il coltello e sfregiarlo all’occhio destro.
L’uomo lancia un urlo, più di ira che di dolore. Si rialza e con forza bruta si strappa la freccia dalla mano. In piedi sembra più un grosso orso. La pelliccia arruffata, color legno scuro, una barba incolta lunga fino al petto con residui di cibo qua e là. L’occhio grondante di sangue ormai inutile e denti gialli, scoperti in un ringhio furibondo. Dalla sella estrae una grossa ascia imbrattata di sangue rappreso.
La predatrice arretra, stringendo il pugnale nella mano sinistra.
Un muggito grottesco straborda dalla gola dell’uomo che carica vorticando la grossa ascia verso di lei. I passi di lui sono pesanti, forse anche stanchi, il fango sprizza sotto il suo peso e la lama taglia l’aria con suono sordo. Sebbene la mano ferita sia quasi fuori uso, egli brandisce l’arma con furia e maestria, la issa sopra il suo capo rasato coperto di cicatrici e la cala verso di lei, sfruttandone la portata.
Gli occhi e l’istinto della cacciatrice sanno bene che arretrare sarebbe inutile, la lama taglierebbe carne, tendini ed ossa senza difficoltà, per questo anziché arretrare, scatta in avanti, rasente al suolo. Le bastano pochi passi perché anche l’uomo corre verso di lei. Senza pensarci due volte poggia il palmo aperto della mano libera sul pomolo del pugnale, indi si getta conficcando per tutta la lunghezza della lama la piccola arma nel piede dell’energumeno, sfruttando tutto il suo peso e la forza di lui.
Il grido del bestio è un ruggito di rabbia dovuta allo scherno, al profondo disgusto che prova per sé stesso in questo momento. Non fa in tempo a girarsi che la predatrice è già svanita nella macchia.
Dalla bocca l’uomo sputa sangue. Si china sul piede e lo libera dalla lama.
‘Fuah!’ Seguono parole esotiche sconnesse e rudi.
Non esiste perdono. Se deve morire, lo farà cercando vendetta. Ma non morirà. Non oggi. Quella puttana deve morire.
Si incammina verso le orme lasciate sulla neve fresca. Qualche goccia di sangue lo informa del fatto che anche lei sia ferita. Nonostante la sua massa, sembra che il suo passo claudicante diventi sordo. I piedi affondano nella neve senza rumore, l’occhio ancora buono scruta le orme.
Dopo poco giunge in una radura. Le orme dicono che lei ha attraversato dal centro per tutta la lunghezza dello spazio. Il tempo è prezioso. Digrigna i denti e percorre la stessa strada di lei.
Stupido.
Il suono della freccia che trapassa la rotula ed i tendini è sordo. L’occhio di lui non fa in tempo a posarsi sull’impennaggio nero bluastro che un’altra gemella si pianta in maniera poco più imprecisa più su del ginocchio, tra il vasto mediale ed il tendine del muscolo quadricipite del femore.
La vista si annebbia, ma resiste. La postura viene meno, ma resiste. In lontananza una figura esile e selvatica si avvicina veloce a lui. Il bestio ruggisce, stoico, ma un conato di vomito soffoca il suo possente urlo. La creatura felina balza in avanti, tra le mani una lunga selce appuntita. L’ultima cosa che vedono i suoi occhi sono quegli occhi selvaggi e feroci.

In una foresta non vince il più forte. In una foresta sopravvive il più scaltro.
Il corpo del grosso uomo cade di schiena, martoriato dalla sua arte predatoria, quasi sadica. Solo ora, sembra tornare in sé. Solo ora, riprende a capire.
Assassina.
Ancora in preda all’adrenalina, freme, tentenna, non sa che fare. Fuggire? Si. Decisamente.
Un sordo calpestio di zoccoli infrange i suoi pensieri sconnessi. Volta le spalle al novello cadavere ma si trova circondata. Cinque cavalieri avvolti in vaste pellicce ispide pinzate da una grezza medaglia di ferro scuro. Cinque uomini, cinque lance, nessuna via di fuga.
‘E’ morto?’ Domanda l’unico in possesso di un elmo puntuto sul volto.
‘E’ morto’ Risponde l’altro.
‘Rrah!’ Sprona il cavallo con un gesto di rabbia muovendolo verso di lei ‘Tornatene da dove sei venuta..’ sibila da dietro il metallo che gli copre il viso.
Lei non se lo fa ripetere due volte. Sa bene che crimine ha commesso. Sa bene che non le daranno un’altra possibilità. E’ così presa dal defilarsi che non nota il cenno di intesa tra i cavalieri. Un colpo diretto alla base della sua nuca. Buio.

In una foresta non importa quanto sangue viene sparso. In una foresta la neve copre ogni cosa.
La candida neve si adagia sul suo corpo, quasi volesse coprire la sua deflorazione. Gli occhi si riaprono a stento. Gli arti si muovono lenti, intorpiditi dal gelo. Il freddo non anestetizza il dolore. Si guarda intorno, i suoi vestiti sparsi, strappati dalla furia di cinque belve. Si rialza, tremante e dolorante. Qualsiasi cosa muova, l’unica cosa che prova è dolore. Raccoglie gli indumenti, stordita, vuota. Si trascina verso la boscaglia fitta dove la neve non arriva, scava una buca con le poche forze rimaste, la terra si impasta con il sangue delle unghie rotte. Si adagia nella tana, coprendosi con gli indumenti strappati e le foglie. Buio, di nuovo.

In una foresta ciò che conta è superare la notte. In una foresta ciò che conta è che quando ti svegli, ti appresti a combattere.
Il fruscio del letto di foglie secche le solletica l’udito. Ancora dolorante fatica a svegliarsi. Qualcosa di piccolo si aggira dalle parti della sua testa. Un gesto rapido, con entrambe le mani la afferra. Ne segue una forte pressione, indifferente alla natura di quel che ha preso. Un topolino selvatico spira tra le sue falangi tumefatte. La fame ha il sopravvento. La fame oblia la sua civiltà. In un unico gesto, porta la craturina alle sue labbra e lo divora. Le ossicina tra i denti di lei stridono e si spezzano.
I giorni seguenti si susseguono uguali, stentati, freddi, al confine tra la vita e la morte.
Solo dopo una settimana le ferite riprendono a rimarginarsi. Mentre si cauterizza le più piccole e superficiali, mastica l’asciutto pezzo di fagiano cotto sulle pietre. I suoi occhi vitrei fissano la lama incandescente, le nari emettono sbuffi costanti, simili a quelli di un toro che sta per caricare, le mani tremano, ma non di freddo, né di paura. Nelle sue vene scorre una sola cosa: Vendetta.
Le notti trascorse sono volate insonni ed i rari sprazzi di sonno sono stati avvolti da un tiepido sentore di godimento e orgasmo mentre ella praticava la caccia. Ma non era la solita caccia. Non era la bestia contro l’uomo. No, anzi. Sentiva il caldo abbraccio della morte durante quel sogno, sentiva un irrefrenabile piacere per un avversario suo pari.
Fu in quella settimana trascorsa nel nulla, che ella scoprì la sua vocazione. Fu in quella settimana trascorsa nel nulla, che ella desiderò più di ogni altra cosa uccidere suoi pari.

Mentre si allontana dalla foresta in cui è cresciuta non si volta. Mentre si allontana dalla foresta in cui è cresciuta non versa nemmeno una lacrima. Il fiuto la guida verso nuovi orizzonti, nuove prede.
Passarono pochi giorni prima che trovasse le prime tracce umane lungo il percorso. Leccandosi le labbra con vena sadica si mise sulle sue prime tracce.
Fu notte. Le stelle illuminano il cielo privo di luna. La sua preda è vicina.
Oltre il pendio, una casupola dal tetto di paglia, da dentro le finestre emettono una tenue luce, dal camino una costante colonna di fumo. Striscia sul verde prato umido.
Acquattata raggiunge le mura esterne in pesante legno, proprio a ridosso della finestra. Da dentro provengono voci mescolate indistintamente con mugolii e lagne infantili. La casa non è alta, da buona predatrice qual è, preferisce il fattore sorpresa ed il vantaggio dell’altezza. Con una selce affilata in una mano ed il pugnale nell’altra, sale sul tetto, scivolando come un passero domestico tra i fasci che costituiscono il tetto.
Una grossa trave le fa da appoggio sicuro, nell’ombra. I suoi occhi guizzano al centro della sala, diverse figure le fanno corrugare la fronte, aveva calcolato solo un singolo uomo, invece lì contava un maschio adulto, una donna, due bambini ed un giovane. Un’altra figura maschile, rivolta a terra in una pozza di sangue.
La donna piangeva e stringeva i più piccoli a sé, frignanti anch’essi, il giovane si frapponeva tra l’uomo ancora in piedi e la donna.
La situazione le era chiara, tuttavia le importava poco delle sorti di quella famiglia, lei era lì per uccidere. Punto.
La furia dell’uomo che impugnava un grosso coltello nella mancina divampa all’istante, saturo probabilmente delle lagne di tutti e del poco oro raccimolato. Tuttavia il suo greve timbro vocale viene soffocato in una grossa bolla di sangue che risale lungo l’esofago, risultato forse della lunga lama piantatagli tra le costole all’altezza della scapola. I suoi occhi si torcono all’indietro, come se volesse vedere la subdola creatura che gli ha provocato il reflusso. Non fa in tempo. Una punta di selce si pianta tra la terza e la seconda vertebra cervicale, ottenebrandogli la vista e paralizzandogli il moto muscolare. Solo seconda sovviene Dama Morte.
Il silenzio cade, come strattonato dal peso dell’uomo che crolla in ginocchio e poi frana di faccia sul pavimento di assi e terra.
La tremula luce delle candele illumina il volto sfregiato di lei, la famigliola, orfana di padre, la fissa attonita. Otto occhi su di lei, gelida come la neve che le fece da coperta un giorno non molto distante da quel momento. Riprende saldamente in mano il pugnale tinto di sangue arterioso, pronta a terminare altre quattro vite per puro istinto quando, di sorpresa, la figura della donna e quella dei due piccoli si gettano ai suoi piedi, cingendole il bacino e sbiascicando parole di ringraziamento a lei ed agli dei.
Attonita non reagisce. Da anni un essere umano non la toccava, se non per nuocerle. Resta immota per un tempo che le sembra infinito.

La donna si chiama Katelyn. Gli occhi gonfi di lacrime sulla salma del marito coperta da un lenzuolo che pretende di sembrare pulito.
La cacciatrice seduta al tavolo finisce di bere latte di pecora ancora caldo. Nessuno ha dormito quella notte ma Katelyn ha preteso che Samuel svolgesse le funzioni mattutine al gregge.
‘Ora sei tu l’uomo di casa’ gli disse, prima di scoppiare nuovamente in un pianto infinito.
Con lo stomaco pieno sembra che la voglia di sangue della cacciatrice si sia placata.
Un lontano nitrito annuncia l’arrivo della guardia cittadina, richiamata da Samuel stesso in poche ore di galoppo.
Due uomini smontano da cavallo e si dirigono verso il corpo reso cadavere dalla cacciatrice quella notte.
‘Figlio di puttana’ mormora uno.
‘E’ lui’ asserisce l’altro, facendo un cenno al terzo uomo, ancora in sella.
Tutti uscirono, compresa la predatrice, più intenzionata a dare una tregua alle sue narici dal lezzo della casa che per altro.
‘Hai vendicato tuo padre, Sam’ mormora l’ultimo uomo smontato da cavallo, visibilmente più vecchio degli altri.
‘Non.. non sono stato io, signore’ risponde timidamente il ragazzo, guardandosi le punte dei calzari lordi.
‘Come?’ domanda attonito il vecchio gendarme.
‘E’ stata.. è stata lei’ prosegue Sam, con fare tentennante. Le guardie poco lontane ridono, sotto le loro folte barbe.
‘Kate, dice il vero?’ domanda di rimando il vecchio a Katelyn.
‘Si..’ risponde la donna con le poche forze che le restavano dalla notte insonne.
L’espressione del vecchio resta enigmatica, le rughe della senilità confondono quelle di espressione. Con passo sicuro e pesante, nonostante l’età, l’uomo si avvicina alla predatrice.
‘Non sembri una pellegrina.. tantomeno una paladina della giustizia..’ asserisce il vecchio, a pochi passi da lei. I suoi occhi grigi luccicano di sospetto.
‘Sono solo una cacciatrice’ risponde, sollevando le spalle con fare rozzo, restandosene a braccia conserte.
‘Una cacciatrice, eh?’ conclude. Lei non replica, non amando parlare. Il vecchio le volta le spalle, sbuffa ed estrae un sacchetto nero al cui interno qualche moneta tintinna. Si volge verso di lei, arricciando il naso martoriato dalle intemperie sofferte nel tempo.
‘Non spenderli tutti alla prima locanda che incontri’ sghignazza, lasciandole il sacchetto nella mano callosa, tutt’altro che femminile.
La predatrice guarda il sacchetto, poi il cadavere da li generato ed infine il vecchio uomo che, voltandosi gracchia ai suoi.
‘Ora i cacciatori di taglie non hanno le palle!’ la frase suscita l’ilarità degli uomini, di quelli vivi, per lo meno.
La Cacciatrice di Taglie li guarda allontanarsi all’orizzonte, inconsci di averle dato uno scopo.
[Modificato da Faccia da cavallo 27/09/2016 08:29]
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