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La Corte
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Ultimo Aggiornamento: 27/09/2016 08:29
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26/09/2016 08:18

YURI:

Fersen Derien

Il grande arazzo che copriva l’intera parte destra della stanza raffigurava una mappa del mondo, era di antica fattura, i nomi delle terre scritte nella grafia di un tempo passato, quelle “a” morbide e quelle “s” spigolose. Il tratto era deciso, si distinguevano i confini di ogni stato: Sornium, Alanai, il Conai dove spiccava la sua capitale: Artabore.
La luce che filtrava dalla finestra sulla parete opposta riusciva a stento ad illuminarla, lasciandola nella penombra.
“A te la parola capitano Marken” disse l’uomo in piedi dietro al tavolo che era al centro della stanza.
Era un tavolo scuro coperto di fogli di ogni genere, un tavolo di legno massiccio, scolpito in un unico grande tronco di Rogan, le piante che crescevano nelle venefiche foreste sotto di loro, sotto le splendide città volanti di Aliande.
“Signore, un'altra nave è scomparsa. Si stava recando nella città mercantile di Karken, ma ieri notte abbiamo perso il contatto.
Come le altre volte la nave, l’equipaggio e il carico sono scomparsi nel nulla, come se si fossero dissolti.” Rispose un uomo allampanato , alto e magro come un fuso.
“Un'altra…” il volto abbronzato, di chi aveva passato una vita sulla tolda di una galea celeste, si incupì. “Quante navi mi sono rimaste?… due?… tre forse…. Maledizione!” e dopo un pugno sul tavolo si sedette sulla imponente sedia. “Sedetevi anche voi, non state in piedi”. Continuò il canuto armatore.
Passò lo sguardo sui tre capitani seduti di fronte a lui, poi incrociò le dita delle mani dietro la testa e si allungò sullo scranno e, con uno sbuffo, riprese. “ Scusate il mio scatto d’ira” poi si ricompose “ allora non c’è bisogno di prenderci in giro, voi siete i tre miei migliori capitani, mi piace considerarvi amici, siamo sull’orlo della banca rotta. Il Limium deve aver scoperto i nostri traffici, ma mi chiedo come abbiano fatto” si passò la mano destra sul cranio glabro e, nello studio, scese un silenzio cupo, carico di tristi pensieri.
Incar Derien, Incar “l’armatore”, il padrone di casa. Era un uomo dal fisico eccezionale, ancora tonico e scattante seppur aveva ormai superato la metà del secolo.
A parte le due folte basette bianche era completamente rasato, i due occhi cerulei erano quelli di chi era abituato a osservare il mondo, non solo a guardarlo.
Indossava una camicia lilla su dei calzoni di lino bianco, alla vita aveva la “Cintura del capitano” come tutti gli altri uomini nella stanza.
Era stato lui a progettare il guanto e la cintura che ogni capitano della sua flotta indossava.
Era un uomo astuto, scaltro e per questo non si perdonava la disgrazia che ora colpiva la sua attività e la sua famiglia.
“Tom quanto ti ci vuole a mettere insieme un equipaggio per la “Piuma di Merlo”?Non dobbiamo perderci d’animo!
“Veramente non c’è più nessuno che vuole navigare per la vostra flotta, hanno paura di non fare più ritorno alle loro case…”
“E poi non ci sono più mercanti che si arrischiano ad affidare a noi le loro merci, signore abbiamo perso cinque navi nell’ultimo mese,” si intromise Marken nel discorso del compagno “ e non solo quelli che commerciano con il Alanai, ora nessuna delle rotte è più sicura per le vostre navi.”
“Che siano maledetti, che quelli di Limium possano morire tra i miasmi della foresta di Acranat, che le loro ceneri non possano mai essere sparse nel vento e che i loro piedi siano sempre incollati al suolo.” Così dicendo sputo per terra. “Lasciatemi, ora devo pensare e non temete, troverò una soluzione, come è vero che mi chiamo Incar “Nuvola di Tempesta”” e congedo gli uomini con un gesto della mano.
“Si Capitano! Riusciremo a superare anche questa burrasca” a sentire l’ammiraglio usare il suo nome da combattimento, il nome di quando ancora era il loro capitano, di quando ancora solcava i cieli e li guidava su rotte sicure, esplosero in un’espressione gioiosa e si sentirono carichi di energia. Poi abbandonarono la stanza.
“Bravi ragazzi.” Pensò Incar “Davvero dei bravi ragazzi:”
Tutti e tre quegl’uomini avevano navigato sotto i suoi ordini, erano poco più che ragazzi quando erano saliti sulla sua nave, “La Folgore”, erano saliti come mozzi e ora erano i più esperti uomini che solcavano i cieli.
Raccolse tutte le carte che aveva sul tavolo lasciandolo sgombro, le impilò alla ben e meglio e poi le infilò in un cassetto alle sue spalle.
Era giunto il momento.
Da uno scomparto segreto del tavolo estrasse un sacchettino di cuoio, lo accarezzò tra le mani e se lo infilò in tasca.

Fersen, un ragazzo alto e robusto e con il collo taurino, entrò nella stanza e rimase immobile in piedi davanti alla scrivania.
“Padre, mi avete fatto chiamare?” si rivolse all’armatore.
“Si Fersen, ho bisogno di parlarti, hai portato ciò che ti ho chiesto?”
“Si, padre.”
“Mostrami le pietre allora .”
Un lampo di imbarazzo dipinse il volto del ragazzo, accentuato dal diverso colore degli occhi, uno azzurro e uno verde.
Il giovane infilò una mano in tasca ed estrasse un sacchettino di cuoio su cui erano incise alcune rune, lo aprì e ne estrasse quattro pietre lucide e levigate, grandi poco meno di un mandarino.
Posò le quattro pietre di colore diverso su l tavolo.
Il padre si mise ad osservarle, senza però toccarle.
“Il sigillo mi pare ben fatto, complimenti. Però solo quattro, mi aspettavo qualcosa di più da te Fersen…”
Il ragazzo spostò il peso dal piede destro a quello sinistro e fece per parlare.
“Non c’è bisogno che ti scusi” lo precedette il padre “Descrivi piuttosto le pietre.”
“Questa è la pietra del fulmine,” iniziò a recitare la formula mentre indicava la prima pietra “mi permetterà di difendere la nave e proteggere i miei uomini.”
“Bene continua”
“Questa è la pietra del cielo” indicò la seconda “mi permetterà di muovermi agilmente sulla mia nave e di essere pronto ad ogni imprevisto.
Questa è la pietra del vento, così che le mie vele siano sempre gonfie e la strada verso casa sempre rapida.”
Il padre con un cenno della mano gli fece cenno di continuare.
“Questa è la pietra della mente, così da essere un passo più avanti di chi vuole ingannarmi. Ecco padre queste sono le mie “Pietre del Capitano”, spero che ti compiacciano” concluse il ragazzo.
Lo sguardo dell’uomo si fece severo, poi si addolcì.
“Ascoltami Fersen, non interrompermi, lasciami finire di parlare e quando avrai sentito tutto ciò che ho da dire, fai la tua scelta. Ora siedi e volta la sedia verso la mappa sulla parete”
Il ragazzo fece come gli aveva ordinato il padre.
“Ho costruito la mia compagnia mercantile dal niente, ho cominciato come mozzo poi ho fatto carriera e sono diventato capitano, con arguzia e fortuna ho comprato la mia prima nave, “La Folgore”, ho lavorato prima a contratto, poi sono diventato indipendente.
Ho sposato tua madre e anche grazie ai soldi e agli appoggi politici di tuo nonno, il Conte, anno dopo anno ho costruito la più grande compagnia della città, ma questo già lo sai.”
Fersen annuì, un po’ annoiato, aveva sentito questa storia mille volte, se ora suo padre si fosse messo a raccontare della volta che aveva combattuto contro lo spirito del Nargallo, non si sarebbe alzato dalla sedia per ore, questo era poco ma sicuro.
“La nostra flotta trasporta qualsiasi mercanzia per conto di altri mercanti, non abbiamo traffici nostri, viviamo sulla percentuale di ogni carico o almeno questo è quello che pensano tutti.
Quello che invece non sai è che” si guardò intorno come per vedere se ci fossero orecchie indiscrete in ascolto, abbassò la voce e continuò “ quello che non si sa dicevo è che aiutiamo lo stato di Alanai, commerciamo con loro armi, vettovaglie, cibo, qualunque cosa hanno bisogno per resistere agli attacchi della città di Linium.”
Se il ragazzo rimase stupito, celò molto bene le sue emozioni.
“ Ultimamente la sfortuna perseguita le nostre navi, ma più che sfortuna io la chiamerei Regno di Sornium.
In qualche modo devono aver scoperto i nostri traffici e con chissà quale inganno fanno sparire le mie navi….che siano maledetti.” Il viso gli si avvampò di rabbia.
“ Fersen, non è giusto che io ti menta, siamo prossimi alla bancarotta, nessuno vuole più utilizzare le nostre navi per i commerci e i creditori sono alla nostra porta.
Così non ho poi molto da darti per il futuro se non qualche consiglio e poco altro.”
Rimase un attimo in silenzio, poi estrasse una pietra Bunta dalla tasca e la posò sul tavolo, poi prese il sacchettino da tasca e ne estrasse due dischi uno di rubino e uno di smeraldo, poco più grandi di uno Yota d’oro.
Strinse il disco rosso tra pollice ed indice della mano destra e lo alzò verso la mappa, poi nella mano sinistra prese la pietra bunta, una frase accarezzò le sue labbra e il suo corpo fu percorso da un fremito quando la magia pretese il suo tributo.
Il sigillo si animò di vita e strisciò gelido sull’avambraccio dell’uomo, dalla pietra scaturì un fascio di luce bianca che passando attraverso il disco disegnò fluenti linee rosse sulla grande mappa.
“Queste che vedi figlio sono rotte sicure. Come vedi ci sono delle note scritte su ogni rotta. Guarda bene questa mappa e mandala a mente, veleggerai sicuro e rapido.”
Aspettò qualche minuto poi poggiò il disco rosso sulla scrivania e prese quello verde.
Una decina di cerchi di luce verde brillarono in alcuni punti della mappa quando il disco entrò nel fascio di luce.
“Nei porti e nei mercati delle città circondate di verde” riprese l’uomo “troverai persone pronte ad aiutarti se dirai loro di essere mio figlio, il figlio di “Nuvola di Tempesta”. Manda a memoria anche questi.”
Mentre posava la pietra e rimetteva i dischi nel sacchetto, il ragazzo dagli occhi diversi fece per parlare.
“Non ho finito.” Lo interruppe Incar. Poi si voltò, aprì un’anta dell’armadio alle sue spalle e vi estrasse degli oggetti che posò sulla scrivania.
“Queste sono la mia eredità, ciò che posso e voglio permettermi di offrirti per il futuro.
Il “Guanto e la Cintura del Capitano”, non hai ancora abbastanza pietra per fregiarti di questo titolo, ma confido che colmerai queste mancanze.” Così dicendo gli porse, un guanto con una gabbia di metallo sul dorso dove poteva essere incastrata una pietra Bunta e poi una cintura di cuoio rinforzato, anch’essa aveva le griglie per le pietre, tre a destra e tre a sinistra della fibbia.
“non tenere sempre le pietre nella cintura e soprattutto nel guanto, dopo un po’ il contatto con quei sassi” disse quest’ultima parola con una punta di disprezzo “ è fastidioso, lo sai bene. Mettile dentro qui.”così dicendo gli pose una scatola dello stesso legno del tavolo, l’aprì, dentro era imbottita e foderata di velluto lilla, conteneva gli incavi per inserire una quindicina di pietre.
“Questo è un anello, il mio anello, mostralo nelle città di prima e nessuno metterà in dubbio le tue origini.” E così dicendo estrasse l’anello d’argento che portava all’anulare sinistro e lo pose al figlio.
“Come ultimo dono, un pettorale di’armatura, ti difenderà da frecce, lame e bastonate. Spero non dovrai mettere spesso alla prova la sua resistenza figliolo.” Lo sguardo del padre si addolcì “Vai per la tua strada.”
Così dicendo di alzò, passò a destra della scrivania e si mise in piedi di fronte a Fersen, che si era alzato a sua volta.
I due si abbracciarono per qualche istante. Poi Incar si staccò e guardò negli occhi il figlio.
“ Che il vento soffi sempre alle tue spalle e che la fortuna ti sorrida.” Disse l’uomo nel tipico saluto Aliandi.
“Che le tue rotte siano sicure e che ti portino verso porti amici.” Rispose il figlio completando il rituale.
Raccolse gli oggetti e uscì dalla porta.


Erano passati due anni da quella conversazione, Fersen si era imbarcato la mattina seguente su una nave mercantile che portava a Nord e da allora aveva vissuto di piccoli espedienti.
Navigato come mozzo su diverse navi, si era spesso ubriacato in bettole fatiscenti che ammorbavano i porti cittadini con la loro presenza, aveva conosciuto l’amore di molte donne e spesso aveva pagato per la loro compagnia di una notte.
Da Ralf “lo zoppo”, un marinaio rude e aspro, aveva imparato la “Danza dell’acciaio”, aveva vissuto al limite, sul confine della perdizione.


Sveglio.
Si era alzato con il solito cerchio alla testa, la bocca impastata, il subbuglio nello stomaco che gli era famigliare come un amico. Sul tavolino della stanza in affitto sopra la macelleria gli ammiccavano quattro bottiglie di Burbon, compagne della serata precedente.
Malfermo sulle gambe si avvicinò alla finestra dalla quale saliva il rancido odore di sangue rappreso e di viscere di maiale buttate nel canale si scolo a lato del negozio, con il piede prese dentro altre bottiglie vuote che certo non mancavano nella stanza.
Aveva quasi finito i soldi dell’ultimo lavoro, un giorno o due e avrebbe dovuto di nuovo trovare qualcosa per tirare a campare.
Lo sguardo si posò sul fango della strada, aveva piovuto tutta la notte precedente e ora brillava un pallido sole che, anche se erano le due del pomeriggio, non era ancora riuscito ad asciugare il terreno.
Una donna di strada gli fece un cenno, lui ricambiò con un sorriso e rientrò in casa.
Alzò una bottiglia dal tavolo.
Vuota.
Frugò tra quelle che c’erano per terra accanto alla poltrona.
Vuote.
Guardo sotto il letto, nel lavabo, nella tinozza del bagno.
Vuote, vuote, vuote.
Non c’era un goccio di alcol nella casa.
“Maledizione!”
Fersen prese una sedia e la scagliò contro il muro facendola a pezzi, poi si frugò nelle tasche, un quarto di Yota, un tappo di una bottiglia e alcuni foglietti di carta, non sarebbero bastati per qualcosa da bere e Bill non gli avrebbe fatto altro credito.
“Maledizione!”
Aprì le ante dell’armadio e si mise a frugare nei malandati indumenti che c’erano dentro, ma non ebbe fortuna neppure lì, allora si diresse verso il baule, lo aprì, prese lo zaino impolverato che conteneva e lo buttò a terra, poi estrasse un fagotto e gettò per terra anche quello, ciò che era avvolto fece un rumore sordo e metallico, non se ne interessò, quello che cercava si trovava sul fondo.
Le mani sfiorarono la superficie liscia della scatola che cercava.
Pose la scatola di legno sul tavolo e l’aprì. L’interno, imbottito di lilla, conteneva quattro pietre Bunta, non avrebbe potuto venderle, le Bunta erano legate al loro creatore, in oltre c’era un piccolo sacchetto di cuoio.
Le dita indugiarono un momento sui lacci, poi Fersen si riscosse e aprì il sacchetto svuotandone il contenuto nel palmo della mano destra, l’anello d’argento di suo padre.
“Venti, forse trenta Yota d’argento” pensò Fersen.
“E’ scoppiata una nuova guerra tra il Regno di Sornium e il cavalierato di Alanai.
Nuova guerra! Tutte le notizie per un quarto di Yota.” Uno strillone di forse otto anni gridava per strada.
Una lacrima scese lungo la guancia di Fersen, lui si alzò, andò davanti allo specchio e si rase il viso, poi si tagliò i capelli con uno dei coltelli che portava alla cintura, prese l’anello di suo padre, si tolse un laccio dello stivale e ve lo infilò, poi se lo legò al collo.
Più avanti avrebbe trovato una collana più dignitosa.
Aprì il fagotto e indossò l’armatura, poi ci mise sopra la camicia più pulita che aveva, il risultato lasciava un po’ a desiderare.
Mise nello zaino la scatola con le Bunta, la cintura e il guanto.
Si avvicinò alla porta, l’aprì e fece per uscire, poi si fermò. Raccolse una bottiglia vuota di Scotch da terra, l’avvicinò al viso, alle labbra e poi al naso, vi assaporò l’odore.
Un sorriso increspò le labbra, strinse la bottiglia sino a che le nocche gli divennero bianche e la scagliò contro la parete opposta.
Non avrebbe più bevuto.
Uscì dalla stanza
[Modificato da Faccia da cavallo 26/09/2016 08:21]
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26/09/2016 08:23

DELU:

Que’ Bel

Casa Denethor era caduta in un silenzio profondo, ogni membro della famiglia era raccolto fuori ad un'unica stanza, i cuori palpitanti all’unisono in attesa del lieto evento. Per lunghi interminabili minuti l’unico rumore udibile era il respiro dei presenti, poi all’improvviso il pianto proruppe come un tuono squarcia la tempesta e Lord Zoseph seppe di avere un erede.
Jocelin quasi svenne quando intuì quello che stava accadendo. Il guaritore aveva estratto un bel bimbo, sano e forte, ma lei seppe che non era ancora finita. In quei brevi istanti capì che era successo l’irreparabile, il frutto del suo amore e del suo tradimento stavano per darle un secondo figlio. Quando li vide l’uno a fianco all’altro non poté non notare la diversità tra i due. Il cuore gli si spezzo al pensiero di ciò che andava fatto, ma non poteva esitare, dovette agire in fretta. Con il sussidio del guaritore, e la promessa di mantenere il segreto fece portar via il secondo bambino, mentre la sua fedelissima dama andava a recar la novella della nascita al resto della famiglia.
Grandi festeggiamenti vennero organizzati da Zoseph Denethor per la nascita del suo primogenito maschio che come da tradizione, venne chiamato Tharok così come si chiamava suo nonno. Lord Denethor era al settimo cielo, Jocelin lo aveva reso l’uomo più felice del mondo, permettendo alla sua casata di continuare per la generazione futura, ma lei serbava l’immenso dolore della separazione del suo secondo figlio, anche se non lo diede mai a vedere. Finiti i festeggiamenti, facendo molta attenzione a non essere vista da nessuno, Jocelin si recò dal guaritore che custodiva ancora il suo secondo figlio. A differenza di Tharok che aveva gli stessi tratti di Zoseph, scuro di carnagione e di capelli, questi era biondo, con dei vivaci occhi verdi come quelli di suo padre e la carnagione di un color miele ambrato. Jocelin non aveva proprio cuore di abbandonarlo così penso per diverse ore insieme al guaritore ad una possibile soluzione. Giunti ad una conclusione Jocelin ringrazio il guaritore e se ne andò col bimbo.
Era sera, il tramonto tingeva il paesaggio con le tonalità calde dell’arancio e del rosso, Garret rientrava dalla sua bottega, dopo una lunga giornata di lavoro passata a forgiare e ferrare gli zoccoli di diversi cavalli di Casa Denethor. Garret era il fabbro ed il maniscalco del paese, era un lavoro duro, ma a lui piaceva e gli garantiva di vivere discretamente.
D’un tratto sentì bussare alla porta della sua abitazione, incuriosito si avvicinò alla porta chiedendo chi fosse, ma non ricevette risposta, così aprì la porta. Ebbe un sussulto nel trovarsi davanti Lady Jocelin, il suo cuore cominciò a battere all’impazzata, come ogni volta che lei in gran segreto veniva a trovarlo. Jocelin e Garret erano innamorati da tutta una vita, ma quando Lord Denethor la scelse come moglie, non poté opporsi alla sua volontà. Denethor era un uomo buono e col tempo imparò ad amarlo, ma il suo cuore apparteneva a Garret. Quella sera però Jocelin aveva una strana espressione, sembrava profondamente scossa e addolorata. Garret sapeva che era incinta di Lord Denethor, così le chiese del bambino. Lei scoppio in lacrime e si spogliò del fagotto che portava sulla schiena. “L’ho chiamato Que’ Bel” disse, “è tuo, è il secondo dei miei figli, ho avuto due gemelli, l’altro è di Denethor, non aver timore nessuno verrà mai a saperlo, sono come il giorno e la notte. Vuoi prendertene cura?” Garret, rimase paralizzato non sapeva che dire, ma in cuor suo sapeva che avrebbe tenuto suo figlio, il frutto del loro amore segreto. “Farò in modo che possa crescere nel migiore dei modi” gli disse. Garret prese il bambino e lo guardò, aveva i suoi occhi, era come guardarsi dentro ad uno specchio e ritrovare la propria espressione. Una gioia immensa proruppe e calde lacrime gli solcarono il viso. Jocelin si avviò verso la porta sussurrando “Grazie amore mio”, poi uscì per non tornare mai più.
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26/09/2016 08:23

PAOLO:

Kroneker Vandermonde


Kroneker Vandermonde nacque diciannove anni fa in un piccolo villaggio della Forgia non lontano da Ar-Tabore, capitale dell’Impero Conai. I suoi genitori erano mezzadri che lavoravano nelle terre limitrofe alla grande città. Erano cittadini liberi, ma così poveri che per arrivare al giorno dopo dovevano spaccarsi la schiena dall’alba fino al calare del sole nei campi di un ricco e nobile proprietario terriero. I primi anni di vita furono i più felici nonostante le difficoltà e le ristrettezze. Già a cinque anni Kroneker iniziò ad aiutare i genitori nel loro lavoro, portando gli attrezzi e portando il pranzo a suo padre. Gli anni passavano e tutto sembrava restare immutato fino a quando un triste giorno suo padre venne morso sul calcagno da una serpe velenosa mentre stava arando il campo. Nonostante le cure che gli vennero prestate morì poche ore più tardi: non potevano permettersi la visita di un erborista o di un medico. Fu l’inizio della fine per quella famiglia: Kroneker e sua madre vennero presto allontanati dalla casa e dalle terre del latifondista e furono costretti ad andare a cercar di sbarcare il lunario in città. Ma la vita nei bassifondi era molto dura. Sua madre era però una donna in gamba e risoluta e trovò subito lavoro come inserviente all’interno di una casa di un ricco mercante che fornì a lei e al figlio vitto e alloggio. Kroneker aveva undici anni all’epoca e si ambientò velocemente alla vita della strada. Faceva piccoli lavoretti aiutando gli artigiani con le faccende nelle loro botteghe, ma non disdegnava arrotondare un po’ il salario con qualche moneta presa in prestito da qualche passante sprovveduto. Entrò ben presto in un piccolo gruppo di giovinastri più organizzato e da questi “amici” imparò come non farsi notare e come entrare nelle case vuote per rubare. Una volta terminato il colpo dividevano sempre la refurtiva in modo equo. Kroneker non era fiero di se stesso, ma in questo modo poteva aiutare se stesso e sua madre. Negli anni seguenti strinse parecchie amicizie nei bassifondi della città come Lucius l’oste della locanda della Moneta di Rame, un buonuomo costretto ogni giorno a vivere in mezzo a farabutti e mendicanti. Si fece anche una certa nomea. Niente di particolare, ma tutti gli abitanti dei quartieri più poveri sapevano che razza di persona fosse Kroneker. La svolta nella sua vita avvenne quando alcuni membri della sua banda assassinarono una persona allo scopo di rapinarla. Kroneker non era con loro poiché stava lavorando alla locanda di Lucius servendo gli avventori al banco. Quando venne a sapere dell’omicidio fu molto deluso dai suoi compagni di scorribande. In quell’occasione il governo imperiale decise di dare un “giro di vite” alla criminalità e sguinzagliò numerose guardie che nel giro di qualche giorno arrestarono i membri della banda che si erano macchiati del crimine, che vennero immediatamente impiccati. Non ci volle molto tempo prima che la legge raggiungesse anche Kroneker e che lo arrestasse come complice degli assassini. Venne accusato anch’egli dell’assassinio e venne trascinato in carcere. La vita in galera non fu per niente facile anche se durò solo pochi giorni. Lo interrogarono ripetutamente ed i carcerieri non risparmiarono le maniere forti pur di fargli confessare la complicità nell’omicidio. Kroneker però tenne duro e resistette sostenendo di avere un alibi che sarebbe stato confermato da Lucius e degli avventori della locanda. Il terzo giorno di prigionia venne poi condotto nella sala degli interrogatori delle Carceri centrali della capitale imperiale. Sebbene fosse già tumefatto per i precedenti pestaggi delle guardie e a mala pena in grado di camminare, fu incatenato contro un muro di pietra. I secondini uscirono dalla stanza portando con loro le lanterne. Kroneker venne lasciato da solo al buio per più di tre ore. Aveva freddo ed era fisicamente molto provato. Le grida di aiuto non servirono a nulla: vennero contraccambiate solo con alte risate provenienti dal corridoio adiacente. Poi la porta lignea di aprì e fece il suo ingresso un uomo molto robusto dall’aria atletica e marziale. Era sulla trentina, capelli scuri e barba curata. La penombra celava ulteriori dettagli ma Kroneker notò immediatamente le insegne di ufficiale dell’esercito imperiale.
Il soldato si presentò. Disse di essere il maresciallo Reiarde d’Alfonse e che avrebbe condotto lui l’interrogatorio finale. Gli confermò anche che i suoi uomini erano stati inviati dall’oste Lucius per verificare il suo alibi. Tuttavia l’ufficiale non era uomo che amava perdere tempo in formalità ed era più che determinato a cercare da solo la conferma alle accuse che venivano mosse a Kroneker. . Il maresciallo estrasse dalla cinta di cuoio una sorta di talismano che strinse con forza nella mano destra. Kroneker osservò meravigliato un alone di luce bluastra avvolgere il singolare oggetto. D’Alfonse avvicinò la pietra Bunta alla fronte del giovane. Kroneker avvertì delle vibrazioni particolari fare breccia nella sua testa. Non si era mai sentito così: era come se qualcosa di potente ed invisibile stesse assediando la propria mente. Prima ancora che Kroneker potesse opporre la propria volontà all’incanto a cui era stato sottoposto d’Alfonse ritrasse la pietra, ne osservò con attenzione i simboli e poi disattivò il potere Bunta. Sul viso del maresciallo comparve un’espressione di grande incredulità che lasciò poi il posto ad una più riflessiva.
In quel mentre la pesante porta di legno si aprì nuovamente e fece la sua comparsa un soldato imperiale, un subordinato del maresciallo. Questi disse che Lucius aveva confermato l’alibi del giovane. Kroneker fu molto sollevato e l’ufficiale decretò la decadenza delle accuse che gli venivano mosse e la sua scarcerazione immediata. D’Alfonse aveva però intuito la presenza di qualche sorta di anomalo nel ragazzo: la magia Bunta non aveva avuto effetto su di lui e pertanto chiese a Kroneker di seguirlo fino all’Istututo sugli sudi dell’Intrum, per effettuare alcune ricerche. In cambio il maresciallo promise qualche moneta per il disturbo e vitto e alloggio pagati. Kroneker non si lasciò scappare l’occasione. L’ufficiale lasciò il ragazzo alle cure degli studiosi.
L’Istituto degli Studi sull’Intrum impressionò Kroneker. Lo trovava un luogo anomalo, frequentato da gente strana che disponeva di un controllo notevole sul mondo. Riteneva però quegli studiosi troppo pieni di se. Ciononostante lasciò che lo sottoponessero ad alcuni esperimenti. Li vide mentre si concentravano e facevano appello a forze intangibili. Forze che gli venivano regolarmente liberate contro. Pensò di morire per qualche attimo durante quelle “prove”. Quando vide un blocco di ghiaccio grande come un carro cadergli addosso solo i suoi buoni riflessi lo salvarono. Ma per il resto quello che gli fecero subire in quel luogo non fu più pericoloso di una giornata nei bassifondi. Al termine degli esperimenti incontrò nuovamente d’Alfonse. Questi gli disse che gli studiosi avevano infine decretato che effettivamente Kroneker possedeva una sorta di incompatibilità con l’Intrum che si traduceva in una resistenza agli effetti sviluppati dalle forze magiche. Il maresciallo gli riferì che secondo alcuni studiosi la sua singolare caratteristica poteva essere legata ad una forza diametralmente opposta all’Intrum chiamata Notron. Questa tesi tuttavia non era stata ancora dimostrata, come non era ancora stata dimostrata l’esistenza stessa di quella forza chiamata Notron. Kroneker era molto interessato. Aveva solo sentito parlare dei leggendari poteri magici legati all’Intrum e della loro importanza. Il fatto che lui per un qualsiasi motivo ne fosse resistente o protetto lo rincuorava e lo faceva sentire in un certo senso importante. Avrebbe potuto vantarsi con gli amici ma… i suoi amici erano morti e sua madre stava per sposarsi con quel nobilastro che le aveva offerto il lavoro e con il quale lui non voleva avere niente a che fare. D’Alfonse a quel punto fece l’ennesima proposta interessante al ragazzo: avrebbe potuto arruolarsi nell’esercito dell’Impero QQQQ in una divisione speciale, una divisione creata apposta per limitare il potere di quegli studiosi dell’Intrum che deliberatamente tradivano e si opponevano all’Impero. In realtà l’idea di diventare un soldato non lo entusiasmava per niente. Però Kroneker era allettato dal fatto che avrebbe ricevuto un addestramento militare di prima qualità e la possibilità di comprendere più in profondità la natura della propria dote innata.
Kroneker ringraziò d’Alfonse ed accettò di buon grado. Fu quindi arruolato nell’esercito Imperiale nella divisione AAAA, la divisione speciale. Aveva 15 anni. Negli anni che seguirono Kroneker venne addestrato nell’uso delle armi in dotazione ai soldati dell’Impero e alla battaglia ma non solo: nella divisione speciale poté perfezionare le proprie doti naturali, quali la furtività e le doti atletiche.
Kroneker si trovò bene all’interno di questo gruppo di persone. La divisione speciale non era molto numerosa, contava non più di cento elementi disseminati nell’Impero, tutti addestrati nel combattere contro i praticanti dell’occulto che si opponevano all’Impero. Ma, per quello che aveva capito, Kroneker era uno dei pochi in possesso di quell’innata resistenza all’Intrum.
Terminato l’addestramento iniziò insieme agli altri suoi commilitoni a svolgere i compiti più semplici: da scortare dei “pezzi grossi” dell’Impero al sorvegliare le attività di certi praticanti delle arti legate all’Intrum.
In un paio di occasioni ebbe a che fare con persone veramente pericolose e dotate di un potere sufficiente a creare problemi all’autorità imperiale. Fortunatamente in tali circostanze erano presenti anche gli ufficiali suoi superiori, così esperti in battaglia che Kroneker non dovette nemmeno estrarre la spada, per sua grande fortuna.
Un’ulteriore svolta nella propria vita avvenne quando Kroneker venne inviato assieme ad alcuni suoi amici commilitoni a scortare un importante giudice: Demetrius Scrack. Quello che i superiori non svelarono al gruppo di soldati era che il giudice sarebbe stato vittima di un attentato. Proprio mentre camminavano in formazione attorno all’importante personalità imperiale il gruppo venne avvolto da una forza luminosa, palesemente legata all’Intrum. Dopo qualche istante di una feroce lotta interiore i compagni di Kroneker, plagiati da un incanto, estrassero la spada ed ingaggiarono tra di loro una lotta all’ultimo sangue. Kroneker ebbe appena il tempo per sguainare la spada e di allontanare il giudice e vide gli altri uccidersi come se fossero nemici giurati. Il giovane soldato comprese immediatamente che quella circostanza era opera di un arcano e che la propria resistenza alle manifestazioni dell’Intrum l’aveva protetto totalmente, cosa che non era avvenuta per i suoi compagni. Solo dopo qualche decina di secondi di smarrimento vide giungere nella piazza alcuni ufficiali dell’esercito che trattenevano un uomo che Kroneker non aveva mai visto. Solo più tardi gli venne riferito che gli uomini della divisione speciale erano serviti per far cadere un certo Ferdinandus Looman in trappola. Questi non era altro che un praticante delle arti magiche che intendeva assassinare il giudice Scrack. Grazie al loro addestramento contro gli utilizzatori del potere dell’Intrum i membri della divisione speciale erano stati considerati degli ottimi elementi perché in grado di resistere per più tempo agli incanti del mago, tempo che sarebbe servito alle altre forze imperiali per trovare Ferdinandus e per porlo in arresto. Kroneker ed i suoi commilitoni erano stati deliberatamente usati come vittime sacrificali.
Sdegnato il giorno dopo decise di abbandonare la divisione speciale e l’esercito imperiale e nemmeno la proposta di una promozione a sergente lo fece desistere dal suo intento.
A diciannove anni Kroneker decise di lasciarsi alle spalle la propria vecchia vita e di iniziarne una nuova. Fece visita a sua madre per salutarla e notò che ormai si stava già abituando ai privilegi della nobiltà. Era contento che non dovesse più lottare per mangiare. Poi si recò dai suoi vecchi amici nei bassifondi. Vide molte facce nuove. Al margine delle strade scorse una donna con due figli piccoli in procinto di chiedere l’elemosina. Kroneker guardò più attentamente e vide che le mani della donna avevano i segni di chi ha lavorato per anni i campi. Per un momento rivide se stesso al suo arrivo ad Ar-Tabore. Prese il borsello con le monete d’argento che aveva risparmiato negli anni di servizio e senza dire una parola lo passò alla donna che rimase sorpresa. Poi Kroneker se ne andò, armato solo di un machete per la difesa personale, del suo zaino e del suo mantello, pronto a viaggiare per il mondo in cerca di avventure, fortuna e risposte!
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26/09/2016 08:26

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Ecco il mio bg!!!

La Cacciatrice

La foresta, si sa, non è un posto in cui crescere una bambina.

Quella notte la luna era celata da una fitta coltre di nubi. Tra le fronde delle grandi conifere si udiva il vento gelido sussurrare paura e presagi di morte agli incauti avventori della foresta. I monti, che circondavano la valle, graffiavano il cielo e squarciavano le nubi grigie che ottenebravano il cielo stellato. Ai piedi del monte Senmoril, detto anche ‘Il Valico’, una piccola luce calda filtrava dai lucernari della casa di Eldoran Backboar, il taglialegna. Nelle prossimità di quella casa, i rumori della foresta si facevano fiochi, sovrastati dalle grida di travaglio della donna. L’uomo poggiava il suo grande peso sulla trave della porta, unico accesso alla parete che separava i giacigli dal resto della casa. I suoi occhi grigi, un tempo verdi come le distese da cui traeva sostentamento, fissavano con apprensione la donna, la sua donna, accudita dalle due levatrici del villaggio più vicino. Il parto doveva essere semplice, era il quinto figlio, ma Eldoran si sentiva irrequieto comunque. Il tempo passava, il taglialegna sbuffava. Una donna, spazientita dai grugniti del padre, gli chiuse la tendina in faccia. L’uomo non disse nulla, prese un po’ di zuppa dal paiolo che ribolliva e si mise al tavolo a mangiare, gettando insistenti sguardi alla porta. Passò un’ora o poco più, quando la notte venne spezzata dallo stridulo vagito dell’ultima nata. Eldoran sussultò e si precipitò al di là della parete. Una donna teneva in braccio la piccola creatura strillante, l’altra si muoveva frenetica sul corpo della madre.
Eldoran Backboar era un semplice taglialegna, ma non era stupido, si precipitò verso il corpo disteso della moglie, incurante della creatura.
Quella notte, una vita venne data in pegno per una vita. La foresta dà, la foresta toglie.

In una foresta centenaria otto anni sono pochi. In una foresta un singolo albero non conta nulla.
La mattinata era umida ed un pallido sole si faceva largo tra le fronde spinose degli abeti e dei larici. Nonostante fosse piena estate, il clima era piovoso e fresco nella Valle di Renthial, un torrentello spontaneo produceva un sottofondo che sovrastava di poco il rumore degli aghi calpestati da un piede leggero e furtivo. Gli occhi verdi della creatura guizzavano da una zona di penombra all’altra, le piccole mani ossute stringevano con straordinaria forza un lungo bastone dalla punta sottile, probabilmente temprata al fuoco.
Un fruscio sospetto attirò l’attenzione della piccola cacciatrice. Piccoli movimenti scostarono gli aghi ed il fogliame caduto a terra. Ancora pochi passi furtivi; il cicaleccio degli insetti sotto la coltre arborea si spense.
Un suono sordo, ovattato, accompagnò l’affondo della piccola assassina; la fuga fu breve. Pochi balzi della preda si interruppero quando la sottile punta trapassò la pelliccia ed il morbido corpo si afflosciò esanime sul letto di foglie. Dopo aver legato per gli arti la sua preda, la bambina si coricò il suo bottino ed intraprese la via di casa. Ai piedi del monte Senmoril, in una piccola radura artificiale, la capanna si ergeva robusta. Sua sorella, Khaila, e suo fratello di un anno più grande di lei, Loren, fasciavano i rami secchi e li disponevano sotto la tettoia di legno e paglia, al riparo dall’inclemente clima dell’Alanai. Non appena la videro, Khaila, la sorella maggiore si diresse verso di lei con passo lungo e deciso. La piccola cacciatrice fece un paio di passi indietro, quasi volesse prenderne le distanze che però non furono sufficienti per evitarsi il manrovescio.
‘Dove sei stata!?’ gridò con voce stridula ‘Ancora a giocare nella foresta?!’
‘Io..!’ la risposta venne interrotta da un altro schiaffo.
‘Io niente!’ strillò Khaila ‘Dovevi aiutarci a fasciare la legna! Avremmo dovuto finire prima dell’arrivo di papà!’
‘Papà non è ancora arrivato!’ replicò la bambina ‘E tu stai perdendo tempo!’ proseguì, rincarando.
Questa volta lo schiaffo non andò a buon segno e la bambina sgattaiolò rapida in casa.
Il focolare già bolliva e per la piccola, scuoiare tre conigli non era un problema. Li fece a pezzi e dopo averli puliti dalle interiora li infilzò mettendoli a cuocere sul fuoco.
Il nitrito del kaltblutigkeit annunciò il rientro di Eldoran e dei due figli maggiori, Sion e Tyron.
Tutti si precipitarono a ridosso del possente cavallo al quale erano assicurati tre grossi tronchi secolari. La stivazione dei tronchi era un momento in cui tutta la famiglia era coinvolta. Un momento in cui i dissapori si appianavano e il legame fraterno si forgiava.

In una foresta i germogli crescono sui vecchi tronchi caduti. In una foresta il nuovo rimpiazza il vecchio.
Il funerale di Eldoran fu intimo e veloce. Nessuno se non i figli, silenzio se non singulti. Il corpo venne deposto ai piedi del vecchio abete che sovrastava la casa. Il nome venne inciso accanto a quello della loro madre. Sion prese il posto di Eldoran, sua moglie Leida il posto della madre che li lasciò prematuramente. La vita continuava. Uguale a ieri, uguale a domani.
La frescura mattutina sfiorava le dita ben strette sulla lunga lancia. I piedi nudi carezzavano il letto di aghi e foglie. Come secondi occhi, trasportavano alla predatrice tremiti, dislivelli, tane.
I capelli neri ed ispidi raccolti a coda le scivolavano tra le scapole. Le nari saggiavano l’aria, avide di odori selvatici. Un grufolio sommesso, al di là del grosso tronco caduto.
Silenzio.
Il respiro diviene profondo. Labbra schiuse eiettano aria calda.
Silenzio.
La pianta del piede saggia il tronco coperto di muschio, vi aderisce, i muscoli della gamba, sottili e nervosi, la issano sul rialzo. Gli occhi verdi come l’oltremare saettano sul grosso suiforme dal pelo irsuto, nero come la pece. Il cicaleccio cala. Gli uccelli, ignari complici, invece, continuano a lanciare richiami d’amore.
Silenzio.
Le dita stringono l’impugnatura della lancia. Le nocche sbiancano alla salda presa di lei. I denti si serrano contratti in uno sforzo di focalizzazione. Gli occhi non mostrano esitazione ma solo calibrazione. Le ginocchia flettono, le caviglie rispondono al contatto col terreno. A mezz’aria, le spalle si contraggono e rilasciano l’arma in tutta la sua lunghezza. La punta in acciaio ignora la fitta peluria, perfora il derma e s’incunea tra i muscoli del collo e quelli della scapola.
Adrenalina pura, per entrambi.
La creatura scatta in avanti ma i movimenti sono limitati. La sua indole che natura ha selezionato per lui lo sprona a voltarsi e fronteggiare il nemico. Zanne gialle, una scheggiata. Schiuma di rabbia per l’affronto. Capo chino. Carica.
La predatrice atterra sul tenero muschio. Calpestio di zoccoli. Estrae la lunga lama ricurva, balzo all’indietro e affondo nel grasso grosso collo. Un gesto collaudato contro le teste calde che non si arrendono al loro destino.
Il secondo colpo è di clemenza, diritto al costato. Di nuovo, silenzio.

In una foresta le fronde si piegano al vento e le foglie si volgono al sole. In una foresta tutto cambia, anche se tutto sembra restare uguale.
Le giornate si fanno lunghe ed i rapporti con la famiglia sempre più lassi. Le battute di caccia durano giorni, settimane.
In una giornata di rigido inverno in cui la neve ha preso il posto della pioggia, la predatrice sente i suoi piedi affondare nella neve farinosa. La lunga pelliccia gettata sulle spalle s’impregna sempre più.
Un lontano calpestio di zoccoli spezza il silenzio ovattato. Le orecchie vigili indirizzano i suoi passi veloci verso quel suono. Sbuffi dalle labbra socchiuse condensano e svaniscono nell’aria secca e fredda.
Dal piccolo promontorio la vista è libera di setacciare la pista battuta. Le mani callose salde sull’arco. Olfatto acuto, vista nitida, udito fino. Più bestia che donna, ormai.
Il calpestio degli zoccoli sul terreno compatto e gelato si fa sempre più vicino. Medio ed indice carezzano la corda di tendini che freme al tocco di lei, come se l’arma stessa avesse un’anima assetata di sangue. Da dietro la macchia di rovi ecco apparire una grossa creatura, lunghe zampe di equino, grossa testa allungata che sbuffa denso fumo gelato, sulla groppa un cavaliere avvolto in una densa pelliccia fulva.
Le dita scatenano la freccia incoccata. Il corpo da predatrice agisce ancor prima che la sua umanità possa riflettere, ponderare, capire. Un colpo diritto al petto del cavallo che lancia un nitrito acuto, rotto dalla sensazione di morte che avvolge la gola della bestia la quale, dopo un’impennata furiosa, stramazza al suolo agonizzante. Il colpo è mortale, la bestia spira in pochi secondi.
Giusto il tempo per realizzare quel che ha fatto. Denti stretti, la predatrice ritorna donna, bestemmia gli dei e scivola lungo il pendio scosceso, in soccorso del caduto. Ansima correndo verso di lui. Scusarsi è inutile, si accinge a prestare soccorso all’uomo. Frattura? Incosciente? Si china su di lui, steso a terra.
L’olezzo dell’uomo è forte, quasi quanto il suo. La pelliccia puzza ancora di animale. Il volto di lui riverso nella neve trasformatasi in fanghiglia. Con un gesto della mano, fa presa sulla spalla di lui per girarlo supino.
Flulgore argenteo. Dolore acuto sul viso di lei. Balza indietro, aiutata dalla sua feralità. L’uomo rotola verso di lei. Impugna una lama corta ricurva. Prova nuovamente ad attaccarla ma questa volta non c’è più la donna a fronteggiarlo, ma la bestia. Con la mancina gli afferra il polso che impugna la lama, lo preme a terra, con la destra, ancora libera, afferra dalla faretra una freccia e gliela conficca nel carpo, trapassandolo da parte a parte, ancorandolo al suolo quel poco che basta per estrarre il coltello e sfregiarlo all’occhio destro.
L’uomo lancia un urlo, più di ira che di dolore. Si rialza e con forza bruta si strappa la freccia dalla mano. In piedi sembra più un grosso orso. La pelliccia arruffata, color legno scuro, una barba incolta lunga fino al petto con residui di cibo qua e là. L’occhio grondante di sangue ormai inutile e denti gialli, scoperti in un ringhio furibondo. Dalla sella estrae una grossa ascia imbrattata di sangue rappreso.
La predatrice arretra, stringendo il pugnale nella mano sinistra.
Un muggito grottesco straborda dalla gola dell’uomo che carica vorticando la grossa ascia verso di lei. I passi di lui sono pesanti, forse anche stanchi, il fango sprizza sotto il suo peso e la lama taglia l’aria con suono sordo. Sebbene la mano ferita sia quasi fuori uso, egli brandisce l’arma con furia e maestria, la issa sopra il suo capo rasato coperto di cicatrici e la cala verso di lei, sfruttandone la portata.
Gli occhi e l’istinto della cacciatrice sanno bene che arretrare sarebbe inutile, la lama taglierebbe carne, tendini ed ossa senza difficoltà, per questo anziché arretrare, scatta in avanti, rasente al suolo. Le bastano pochi passi perché anche l’uomo corre verso di lei. Senza pensarci due volte poggia il palmo aperto della mano libera sul pomolo del pugnale, indi si getta conficcando per tutta la lunghezza della lama la piccola arma nel piede dell’energumeno, sfruttando tutto il suo peso e la forza di lui.
Il grido del bestio è un ruggito di rabbia dovuta allo scherno, al profondo disgusto che prova per sé stesso in questo momento. Non fa in tempo a girarsi che la predatrice è già svanita nella macchia.
Dalla bocca l’uomo sputa sangue. Si china sul piede e lo libera dalla lama.
‘Fuah!’ Seguono parole esotiche sconnesse e rudi.
Non esiste perdono. Se deve morire, lo farà cercando vendetta. Ma non morirà. Non oggi. Quella puttana deve morire.
Si incammina verso le orme lasciate sulla neve fresca. Qualche goccia di sangue lo informa del fatto che anche lei sia ferita. Nonostante la sua massa, sembra che il suo passo claudicante diventi sordo. I piedi affondano nella neve senza rumore, l’occhio ancora buono scruta le orme.
Dopo poco giunge in una radura. Le orme dicono che lei ha attraversato dal centro per tutta la lunghezza dello spazio. Il tempo è prezioso. Digrigna i denti e percorre la stessa strada di lei.
Stupido.
Il suono della freccia che trapassa la rotula ed i tendini è sordo. L’occhio di lui non fa in tempo a posarsi sull’impennaggio nero bluastro che un’altra gemella si pianta in maniera poco più imprecisa più su del ginocchio, tra il vasto mediale ed il tendine del muscolo quadricipite del femore.
La vista si annebbia, ma resiste. La postura viene meno, ma resiste. In lontananza una figura esile e selvatica si avvicina veloce a lui. Il bestio ruggisce, stoico, ma un conato di vomito soffoca il suo possente urlo. La creatura felina balza in avanti, tra le mani una lunga selce appuntita. L’ultima cosa che vedono i suoi occhi sono quegli occhi selvaggi e feroci.

In una foresta non vince il più forte. In una foresta sopravvive il più scaltro.
Il corpo del grosso uomo cade di schiena, martoriato dalla sua arte predatoria, quasi sadica. Solo ora, sembra tornare in sé. Solo ora, riprende a capire.
Assassina.
Ancora in preda all’adrenalina, freme, tentenna, non sa che fare. Fuggire? Si. Decisamente.
Un sordo calpestio di zoccoli infrange i suoi pensieri sconnessi. Volta le spalle al novello cadavere ma si trova circondata. Cinque cavalieri avvolti in vaste pellicce ispide pinzate da una grezza medaglia di ferro scuro. Cinque uomini, cinque lance, nessuna via di fuga.
‘E’ morto?’ Domanda l’unico in possesso di un elmo puntuto sul volto.
‘E’ morto’ Risponde l’altro.
‘Rrah!’ Sprona il cavallo con un gesto di rabbia muovendolo verso di lei ‘Tornatene da dove sei venuta..’ sibila da dietro il metallo che gli copre il viso.
Lei non se lo fa ripetere due volte. Sa bene che crimine ha commesso. Sa bene che non le daranno un’altra possibilità. E’ così presa dal defilarsi che non nota il cenno di intesa tra i cavalieri. Un colpo diretto alla base della sua nuca. Buio.

In una foresta non importa quanto sangue viene sparso. In una foresta la neve copre ogni cosa.
La candida neve si adagia sul suo corpo, quasi volesse coprire la sua deflorazione. Gli occhi si riaprono a stento. Gli arti si muovono lenti, intorpiditi dal gelo. Il freddo non anestetizza il dolore. Si guarda intorno, i suoi vestiti sparsi, strappati dalla furia di cinque belve. Si rialza, tremante e dolorante. Qualsiasi cosa muova, l’unica cosa che prova è dolore. Raccoglie gli indumenti, stordita, vuota. Si trascina verso la boscaglia fitta dove la neve non arriva, scava una buca con le poche forze rimaste, la terra si impasta con il sangue delle unghie rotte. Si adagia nella tana, coprendosi con gli indumenti strappati e le foglie. Buio, di nuovo.

In una foresta ciò che conta è superare la notte. In una foresta ciò che conta è che quando ti svegli, ti appresti a combattere.
Il fruscio del letto di foglie secche le solletica l’udito. Ancora dolorante fatica a svegliarsi. Qualcosa di piccolo si aggira dalle parti della sua testa. Un gesto rapido, con entrambe le mani la afferra. Ne segue una forte pressione, indifferente alla natura di quel che ha preso. Un topolino selvatico spira tra le sue falangi tumefatte. La fame ha il sopravvento. La fame oblia la sua civiltà. In un unico gesto, porta la craturina alle sue labbra e lo divora. Le ossicina tra i denti di lei stridono e si spezzano.
I giorni seguenti si susseguono uguali, stentati, freddi, al confine tra la vita e la morte.
Solo dopo una settimana le ferite riprendono a rimarginarsi. Mentre si cauterizza le più piccole e superficiali, mastica l’asciutto pezzo di fagiano cotto sulle pietre. I suoi occhi vitrei fissano la lama incandescente, le nari emettono sbuffi costanti, simili a quelli di un toro che sta per caricare, le mani tremano, ma non di freddo, né di paura. Nelle sue vene scorre una sola cosa: Vendetta.
Le notti trascorse sono volate insonni ed i rari sprazzi di sonno sono stati avvolti da un tiepido sentore di godimento e orgasmo mentre ella praticava la caccia. Ma non era la solita caccia. Non era la bestia contro l’uomo. No, anzi. Sentiva il caldo abbraccio della morte durante quel sogno, sentiva un irrefrenabile piacere per un avversario suo pari.
Fu in quella settimana trascorsa nel nulla, che ella scoprì la sua vocazione. Fu in quella settimana trascorsa nel nulla, che ella desiderò più di ogni altra cosa uccidere suoi pari.

Mentre si allontana dalla foresta in cui è cresciuta non si volta. Mentre si allontana dalla foresta in cui è cresciuta non versa nemmeno una lacrima. Il fiuto la guida verso nuovi orizzonti, nuove prede.
Passarono pochi giorni prima che trovasse le prime tracce umane lungo il percorso. Leccandosi le labbra con vena sadica si mise sulle sue prime tracce.
Fu notte. Le stelle illuminano il cielo privo di luna. La sua preda è vicina.
Oltre il pendio, una casupola dal tetto di paglia, da dentro le finestre emettono una tenue luce, dal camino una costante colonna di fumo. Striscia sul verde prato umido.
Acquattata raggiunge le mura esterne in pesante legno, proprio a ridosso della finestra. Da dentro provengono voci mescolate indistintamente con mugolii e lagne infantili. La casa non è alta, da buona predatrice qual è, preferisce il fattore sorpresa ed il vantaggio dell’altezza. Con una selce affilata in una mano ed il pugnale nell’altra, sale sul tetto, scivolando come un passero domestico tra i fasci che costituiscono il tetto.
Una grossa trave le fa da appoggio sicuro, nell’ombra. I suoi occhi guizzano al centro della sala, diverse figure le fanno corrugare la fronte, aveva calcolato solo un singolo uomo, invece lì contava un maschio adulto, una donna, due bambini ed un giovane. Un’altra figura maschile, rivolta a terra in una pozza di sangue.
La donna piangeva e stringeva i più piccoli a sé, frignanti anch’essi, il giovane si frapponeva tra l’uomo ancora in piedi e la donna.
La situazione le era chiara, tuttavia le importava poco delle sorti di quella famiglia, lei era lì per uccidere. Punto.
La furia dell’uomo che impugnava un grosso coltello nella mancina divampa all’istante, saturo probabilmente delle lagne di tutti e del poco oro raccimolato. Tuttavia il suo greve timbro vocale viene soffocato in una grossa bolla di sangue che risale lungo l’esofago, risultato forse della lunga lama piantatagli tra le costole all’altezza della scapola. I suoi occhi si torcono all’indietro, come se volesse vedere la subdola creatura che gli ha provocato il reflusso. Non fa in tempo. Una punta di selce si pianta tra la terza e la seconda vertebra cervicale, ottenebrandogli la vista e paralizzandogli il moto muscolare. Solo seconda sovviene Dama Morte.
Il silenzio cade, come strattonato dal peso dell’uomo che crolla in ginocchio e poi frana di faccia sul pavimento di assi e terra.
La tremula luce delle candele illumina il volto sfregiato di lei, la famigliola, orfana di padre, la fissa attonita. Otto occhi su di lei, gelida come la neve che le fece da coperta un giorno non molto distante da quel momento. Riprende saldamente in mano il pugnale tinto di sangue arterioso, pronta a terminare altre quattro vite per puro istinto quando, di sorpresa, la figura della donna e quella dei due piccoli si gettano ai suoi piedi, cingendole il bacino e sbiascicando parole di ringraziamento a lei ed agli dei.
Attonita non reagisce. Da anni un essere umano non la toccava, se non per nuocerle. Resta immota per un tempo che le sembra infinito.

La donna si chiama Katelyn. Gli occhi gonfi di lacrime sulla salma del marito coperta da un lenzuolo che pretende di sembrare pulito.
La cacciatrice seduta al tavolo finisce di bere latte di pecora ancora caldo. Nessuno ha dormito quella notte ma Katelyn ha preteso che Samuel svolgesse le funzioni mattutine al gregge.
‘Ora sei tu l’uomo di casa’ gli disse, prima di scoppiare nuovamente in un pianto infinito.
Con lo stomaco pieno sembra che la voglia di sangue della cacciatrice si sia placata.
Un lontano nitrito annuncia l’arrivo della guardia cittadina, richiamata da Samuel stesso in poche ore di galoppo.
Due uomini smontano da cavallo e si dirigono verso il corpo reso cadavere dalla cacciatrice quella notte.
‘Figlio di puttana’ mormora uno.
‘E’ lui’ asserisce l’altro, facendo un cenno al terzo uomo, ancora in sella.
Tutti uscirono, compresa la predatrice, più intenzionata a dare una tregua alle sue narici dal lezzo della casa che per altro.
‘Hai vendicato tuo padre, Sam’ mormora l’ultimo uomo smontato da cavallo, visibilmente più vecchio degli altri.
‘Non.. non sono stato io, signore’ risponde timidamente il ragazzo, guardandosi le punte dei calzari lordi.
‘Come?’ domanda attonito il vecchio gendarme.
‘E’ stata.. è stata lei’ prosegue Sam, con fare tentennante. Le guardie poco lontane ridono, sotto le loro folte barbe.
‘Kate, dice il vero?’ domanda di rimando il vecchio a Katelyn.
‘Si..’ risponde la donna con le poche forze che le restavano dalla notte insonne.
L’espressione del vecchio resta enigmatica, le rughe della senilità confondono quelle di espressione. Con passo sicuro e pesante, nonostante l’età, l’uomo si avvicina alla predatrice.
‘Non sembri una pellegrina.. tantomeno una paladina della giustizia..’ asserisce il vecchio, a pochi passi da lei. I suoi occhi grigi luccicano di sospetto.
‘Sono solo una cacciatrice’ risponde, sollevando le spalle con fare rozzo, restandosene a braccia conserte.
‘Una cacciatrice, eh?’ conclude. Lei non replica, non amando parlare. Il vecchio le volta le spalle, sbuffa ed estrae un sacchetto nero al cui interno qualche moneta tintinna. Si volge verso di lei, arricciando il naso martoriato dalle intemperie sofferte nel tempo.
‘Non spenderli tutti alla prima locanda che incontri’ sghignazza, lasciandole il sacchetto nella mano callosa, tutt’altro che femminile.
La predatrice guarda il sacchetto, poi il cadavere da li generato ed infine il vecchio uomo che, voltandosi gracchia ai suoi.
‘Ora i cacciatori di taglie non hanno le palle!’ la frase suscita l’ilarità degli uomini, di quelli vivi, per lo meno.
La Cacciatrice di Taglie li guarda allontanarsi all’orizzonte, inconsci di averle dato uno scopo.
[Modificato da Faccia da cavallo 27/09/2016 08:29]
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